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Luisi, Luciano - 1987 - Roma

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Trascrizione

Luciano Luisi: 00:00:06 Sono Luciano Luisi. È la prima volta che mi capita di parlare ad un pubblico che non conosco, che non posso immaginare, che forse mi ascolterà quando io non ci sarò più. Questo confesso mi fa una certa impressione. Una sensazione analoga l'ho avuta due giorni fa quando un amico mi ha telefonato e mi ha detto che in una libreria antiquaria c'erano due miei vecchi libretti di poesie. Sono andato per curiosità, per vedere soltanto il catalogo e il libraio gentilissimo mi ha detto "ma guardi li abbiamo già venduti", io ho detto “me li faccia conoscere questi incauti acquirenti". Era un libretto del 1949 quello in catalogo, “Racconto e altri versi” pubblicato da Guanda. Con quel libretto cominciava la mia storia di poeta. Io sono nato a Livorno da una madre che è nata in provincia di Pisa, ma livornese di famiglia ovviamente, e da un padre pugliese. Questo padre è molto importante nella mia storia, perché era il sedicesimo di diciassette figli, di una famiglia molto umile, ma ufficiale di carriera e quindi direi imborghesito fino alle midolla. E per questo rifiuto che aveva fatto della sua terra e delle sue origini, aveva sposato mia madre che al contrario era di una famiglia piuttosto importante - nel paese dove è nata ci sono delle strade che hanno i nomi dei suoi avi - e mio padre diceva “l'Italia è da Bologna in su”, quando lo trasferirono a Roma, dove ho vissuto praticamente tutta la vita ormai, dai 12 anni, quindi sono già 50 anni che ci vivo, disse che andavamo nel profondo sud, e io ho scoperto invece l'Italia meridionale e la Puglia in particolare, praticamente dopo la sua morte, sento che è una terra che appartiene al mio sangue, come dico in una poesia. Ma Livorno appare già in quel primo libretto, perché c'è una poesia che si riferisce all'immediato dopoguerra, e che io scrissi quando andai nel '46, in viaggio di nozze, avevo appena 22 anni, ma dopo sei anni di fidanzamento mi ero sposato. E questa poesia dice:

Luciano Luisi: 00:02:25 Anche questa è la mia città, questi cumuli di macerie e polvere che a margine di strade sulla spiaggia mi dicono le case di una volta, anche questi sono miei fratelli che battono instancabili picconi, rimuovono con l'unghie le pietre a ricercare i resti di un amore. Anche questi che giacciono nel limo in un abbraccio di alghe tra le asterie, e guardano con occhi fissi, bucati dal salmastro scorrere eterno, denso cielo, il mare.

Luciano Luisi: 00:03:00 Quel viaggio a Livorno era il cosiddetto “viaggio di nozze”, un viaggio di nozze poverissimo, allora, ma che godette del privilegio di avere io uno zio che era direttore della Società Elettrica di Firenze, e che mi concedette una specie di autobotte per raggiungere Livorno, e questo mi fece sentire molto importante perché mi ricordavo quei romanzi allora molto in voga di Saroyan e di Steinbeck - ché il mio viaggio di nozze era in fondo simile a quelle avventure di quei personaggi - e Livorno è rientrata poi in un libretto che ho pubblicato più tardi con Cappelli, e con dei bellissimi disegni di Renzo Vespignani, che peraltro aveva illustrato anche il mio primo libretto, Racconto, e che poi fu tradotto subito anche in francese con il titolo di Après-guerre. Questo libretto era intitolato invece “Piazza Grande”, che è la piazza appunto principale di Livorno, dove io non vivevo da molti anni, e che non avevo più visto, ma le cronache di allora mi raccontavano di fatti molto tragici che avvenivano in questa città, perché le truppe di liberazione si erano in gran parte concentrate in quella zona, c'era vicino questo famoso Tombolo, questa grande pineta che poi ha suggerito anche film neorealisti. E in questa pineta si erano date un po' convegno tutte le prostitute di guerra, queste povere ragazze che venivano da tutta l'Italia, e un giorno a Livorno, i livornesi che sono molto orgogliosi - vengono chiamati qualche volta i siciliani del continente perché sono irruenti, sono pieni veemenza, di passione - vollero vendicarsi di queste povere ragazze che avevano dato un marchio così infamante alla loro città e le perseguirono, le seviziarono. E c'è una, immagino, una scena tragica, uno dei sette momenti di questo poemetto, in fondo, Piazza Grande, che piacque fra l'altro molto a Ugo Betti e voleva farlo rappresentare nel Festival di Spoleto - poi Ugo Betti purtroppo morì e la cosa cadde -, e racconto appunto questa sorta di rappresaglia che oltretutto sta ad indicare una tendenza, direi teatrale della mia poesia. E infatti, dopo la pubblicazione di Racconto, che aveva già un titolo, non volutamente polemico, perché forse non ne avevo la preparazione o la consapevolezza ma che anticipava certi atteggiamenti narrativi della poesia di quegli anni, e dopo quella di Piazza Grande, Geno Pampaloni mi offrì un contratto, perché pubblicassi un romanzo con Vallecchi, la casa che lui allora dirigeva, ma io non ho mai scritto nulla di narrativa quindi la cosa cadde. Vi leggo questa “Rappresaglia”.

Luciano Luisi: 00:06:01 Ma dove fuggi? Gli alberi non hanno braccia, l'aria non ha nidi, e gli occhi delle case non si chiudono, la stoppa dei capelli fa segnale e la tua veste rossa è come un fuoco, è una marea tentacolare. Vengono, hanno bandiere d'odio negli sguardi, il loro passo cresce sotto gli archi e si gonfia il clamore sulla piazza. Già nasce l'ombra tra le case, avanza nelle macerie, sale dentro agli alberi, già cancella le orme sulla polvere, ma ancora non ha forza per nasconderti. Fedele a te, da tempo ristagna a fondo del tuo cuore, lievitano i tuoi pensieri, ruggine al tuo sguardo, ma ancora non ha forza per nasconderti. Con le mani protese ti raggiungono, le mani che nell'aria erano foglie, fanno siepi di rami sul tuo volto, t'accecano la luce, s'aggrovigliano frugarti il calore, nuda nasci dai brandelli strappati della seta, spezza un filo di sangue l'improvviso candore del tuo seno. Tu non sei qui, non piangere e se piangi è una voce del libeccio, mani che più non sanno le carezze, mani che più non tremano ai contatti, ma il tuo corpo di gesso non ha brividi. Ti ricordi? Era estate, era sul fiume, di sera e ti tremarono i ginocchi, e avvampasti in viso. Era una mano calda che ti cercava nel segreto e ti scoprivi donna al primo fremito. Venga la notte, avvolga di tenebre la piazza che non sappia di tanto scempio, vengano deporti, la stanchezza, non corra più nessuno nelle strade deserte, più non battano i passi alle tue tempie, venga notte, crocifisso ad un platano, fai luce. La tua carne spogliata è più bianca del corno della Luna, sfocati si allontanano i desideri dagli sguardi, casta sei come al tempo amaro dell'infanzia, ma tua madre non viene più a coprirti, a rimboccarti fino agli occhi, scalza, trattenendo il respiro, a segnarti in fronte con l'ulivo, perché l'incubo si dilegui e non scenda il malefizio sopra il tuo corpo in fiore. Anche Tommy è lontano, era un cuscino caldo, quella sua nera mano, l'aria profumava la melassa e il suo corpo era un tiepido prato. Ora hai freddo, nessuno è rimasto, nessuno, questa notte, a scaldarti con il fiato.

Luciano Luisi: 00:08:46 Ecco questa è la mia partecipazione più emotiva, alla vita della mia allora infelice città, ma ormai ero romano, avevo cominciato a scrivere, ero entrato in un quotidiano romano "Il Popolo" e da questa esperienza di molti anni, durante la quale ho fatto come si usa, per un po' di tempo e male il cronista, non essendo io tagliato a fare il segugio e poi, subito dopo la terza pagina, è nato un libretto che ha pubblicato Rebellato nel '53, intitolato appunto “Sere in tipografia”, e... C'è ancora l'eco della guerra perché eravamo in un dopoguerra faticoso a uscire da quelle impronte che ancora si vedevano proprio nelle strade, dalle macerie e dalla miseria, dalla fame. Ma c'era anche tanta felicità di essere tornati alla vita e quasi il miracolo di ritrovarci vivi. Ecco, questo poemetto che in un primo momento fu pubblicato in una rivista milanese, con una sorta di refràn sul battito della linotype che poi ho lasciato cadere quando l'ho pubblicato, si apre così.

Luciano Luisi: 00:10:10 Qui da sempre mie sere ho soltanto la vostra solitudine, l'aria è perduta in questa tipografia che mi ruba i pensieri. Spegnete il mondo linotypes, ma sento che gravano le nubi sulla piazza e scende l'ombra e le fontane, e il vento impigliato negli alberi indugia come l'ultima luce sulle pietre. Nascere un'altra notte non goduta sento, e la luna s'apre, ma il mio cielo d'intonaco non muta.

Luciano Luisi: 00:10:39 Ecco, in quel poemetto appare, per la prima volta, anche l'immagine di mia figlia, che era nata allora, e alla quale dedicai questi versi.

Luciano Luisi: 00:10:54 E questa pace, che adesso mi sfiora/ (una carezza, quasi, cui mi volto/ ansiosamente, guardando nel vuoto)/, sei tu che, scalza, ai piedi del tuo letto/ pieghi i ginocchi e di me ti ricordi.// Anche per me, già sconfitto fra i giochi/ i fumetti e le bambole, a quest'ora/ hai la luce negli occhi.// Annalisa, veleggiano i tuoi anni/ protesi verso un'isola/ che, cantando, affiorare dallo specchio/ ogni mattina scopri se ti guardi./ E basta un fiocco rosso, un libro, un nulla/ e il tuo mondo si illumina, dove gli echi non giungono/ di queste aggrovigliate solitudini.// Lo so che ad ogni fiore/ che accresce il tuo giardino/ uno nel mio ne muore;/ ma quando a casa la notte ritorno/ mi chino sul tuo sonno come un ladro.

Luciano Luisi: 00:11:48 Ecco, cominciava... finiva, in fondo, in quegli anni, anche la mia avventura di giornalista della carta stampata perché, su consiglio di un'amica, mi presentavo a una sorta di provino televisivo e con mio stupore in fondo, perché l'avevo preso come un gioco, nonostante fossimo circa tre o quattrocento, fummo scelti soltanto in due, e da allora sono entrato in televisione, ci sono da 33 anni. Anche qui, in un primo momento la televisione era organizzata più sul mezzo, che sulla specificità delle competenze, e io ero un telecronista, e cioè questo significava che ero abilitato a parlare al microfono, quindi di qualsiasi argomento si dovesse, diciamo, tra virgolette “improvvisare”, dovevamo noi telecronisti essere chiamati in causa, mentre i colleghi magari più esperti di quello specifico argomento dovevano lasciare a noi la palla, per così dire. In questa prima stagione io ho fatto anche il commentatore del Vaticano e ho seguito il Papa nei suoi viaggi, in alcuni molto belli e significativi, come quello in India, quello in Africa e quello in Svizzera, che è stato, dal punto di vista professionale, il più difficile perché si trattava di parlare di cattolicesimo in una terra di protestantesimo e quindi ho dovuto attraversare certe difficoltà ideologiche per poter fare un discorso che fosse accettabile da entrambe le parti. Ma ho ricordato questi fatti, perché il mio viaggio in India con il Papa è coinciso con il compimento dei quarant'anni, che debbo dire io ho accolto in maniera piuttosto patologica. Adesso mi sento giovanissimo, a quarant'anni mi sentivo vecchio, finito, non volevo più vivere, non avevo più nessuno stimolo, e coincideva anche con una profonda crisi religiosa. Io sono cattolico, ma come quasi tutti i cattolici me lo ricordo raramente se non come anelito, come aspirazione. Questo viaggio in India sentivo che era una necessità del mio spirito, era un'indicazione, era una sorta di stella cometa che mi guidava verso una capanna dove avrei trovato certe risposte. E questo mi fece anche vincere quella che allora era più significativa - adesso l'ho superata, insomma - la paura del volo - è stato quello il primo volo lungo che ho fatto - e c'è questa... Quando sono tornato, la scoperta dei valori dell'induismo, che sono per certi aspetti molto simili a quelli del cattolicesimo mi ha fatto riscoprire il cattolicesimo, e quindi ho scritto una serie di appunti per elaborare un saggio ma, siccome il mio solo mezzo espressivo è la poesia, alla fine è nato un poemetto saggistico che è uscito per la prima volta su La Fiera Letteraria con una bellissima lettera di Geno Pampaloni, che poi ha avuto anche un bel commento di Quasimodo, prima sul Tempo Illustrato, poi riproposto anche nel suo libro, in un suo libro di saggi. E qui c'è questa evidente simbologia dell'aereo come angelo che mi porta in questa terra, di questo cielo che si rifiuta all'atterraggio, come cielo che io rifiuto dentro di me. Il poemetto è molto lungo, ovviamente non ve lo posso leggere, ma ve ne do soltanto qualche accenno. Questa è l'apertura.

Luciano Luisi: 00:15:44 Ecco, ora scende, la grande ala scende verso le luci che aprono la notte come annunzio e laggiù, dietro l'anonima luminaria, la terra che m'attende. Ed io, da quanto tempo viaggio? Chi mi ha portato? E che paese ormai a me stranieri l'aperta via del cielo ha cancellato e perché la memoria si fa opaca? E troppo alto il volo per poter ricordare, e un'ansia mi sospinge. Già quelle voci care a salutarmi all'alba nelle tiepide stanze assonate, il brivido delle strade deserte e quel vento che mi accorava dando voce agli alberi, tutto è lontano silenzio. L'urlo, soltanto l'urlo del motore ascolto, del lacerante sforzo di respingere tanto cielo che preme e dentro in lui, mi tendo alla pista che avanza, e corro e sono ora con l'ultimo affanno, qui fermo. Questa è la terra, già, la riconosco.

Luciano Luisi: 00:16:47 Ecco, questo mi ha portato dentro il cuore del mestiere televisivo. In quegli anni ho pubblicato un libro, nel '67, un libro che raccoglieva già venticinque anni di poesie e che ebbe l'onore di essere accolto - sono stato il primo italiano nella collana della grande Fenice di Guanda, e con quel libro, in epoca di piena affermazione dell'avanguardia, quindi di una visione della letteratura che è molto lontana dalla mia, vinsi il premio Chianciano, il cui presidente era Salvatore Quasimodo che, consegnandomelo disse una frase, che poi fu molto riportata, che avevo restituito i sentimenti e le passioni alla giovane poesia italiana. Quel libro aveva come titolo Un Pugno di Tempo, e una bellissima copertina che aveva dipinto per me - i vuoti di memoria - Corrado Cagli. Il senso di quel titolo credo che sia, in fondo, il filo conduttore che lega tutta la mia poesia: questa angoscia del tempo che passa, questo senso, questo sentimento della morte che è presente nella nostra vita e, per necessario e salvifico contrasto, questo amore sensuoso e sensuale, vorrei anche dire, per la vita. Ecco, anche in questi giorni è uscito da poco con il titolo La sapienza del Cuore, un libro che raccoglie quarantadue anni di poesie pubblicato da Rusconi, porta la data del novembre dell''86 e le poesie che contiene vanno dal '44 all''86 e ha cinque bellissimi disegni di Emilio Greco, che è un mio carissimo amico, al quale mi lega un'amicizia fraterna da molti anni. Dicevo, anche in questi giorni è uscita una recensione che, parlando di questo corpus, ormai purtroppo così folto della mia poesia, dice che in fondo il filo conduttore è questo sentimento del tempo. Questo libro ho voluto organizzarlo, come si suole dire, in una maniera forse insolita, ma che ha anche precedenti illustri, cioè non più cronologicamente, come avevo fatto per il libro precedente, ma invece con “à rebours”, quasi, dico nella prefazione, seguendo l'atteggiamento dello spirito che si volta a quella, a quella prima stagione nella quale si rivelò a me la poesia. Vorrei leggervi un piccolissimo brano di quell'auto presentazione che ho scritto per questo libro.

Luciano Luisi: 00:20:05 Non è senza turbamento che ad ogni nuovo rapporto con i lettori, io vedo crescere il numero delle pagine del mio libro, come i rami dell'albero che ho piantato tanti anni fa in un giardino. Dico “mio libro” perché credo che un poeta scriva per tutta la vita un libro solo, e anche questo che è, provvisoriamente - lo spero, questo lo aggiungo adesso – concluso, mi costringe a tornare indietro, a voltarmi fino a quella lontana stagione di guerra nella quale nacque la mia poesia e fu umiliata la mia giovinezza.

Luciano Luisi: 00:20:34 E poi... dice... vado avanti riproponendo addirittura un brano di quello che avevo scritto come nota invece al libro del '67, Un pugno di tempo. Questo libro raccoglie quanto ho scritto dal '44 ad oggi, cioè dalla giovinezza alla maturità.

Luciano Luisi: 00:20:50 Dal colore di un primo rapporto visivo con la vita, un guardare ad occhi aperti fuori per scoprirne le forme e gli inviti, anche se il paesaggio appariva sconvolto dalla guerra, sino ad un inquieto cercarne il senso, ascoltando la propria natura di uomo nelle più segrete e sofferte contraddizioni. E infine sino all'intuirne il vero significato nella storia degli altri, in cui più compiutamente si realizza quella di ognuno.

Luciano Luisi: 00:21:18 Ecco, da questo pensiero nascono certi turbamenti, certe inquietudini che credo accompagni, accompagnino sempre coloro che scrivono e soprattutto coloro che scrivono dei versi. Questa espressione così anacronistica, forse, apparentemente nel mondo di oggi, ma alla quale noi ci ostiniamo ad attribuire ancora un significato vitale, e direi proprio la possibilità di salvare l'uomo da quella massificazione verso la quale purtroppo la vita di oggi sembra... alla quale, la vita di oggi sembra condannarlo. Ecco, anche in questo caso la poesia può essere un appiglio perché ognuno ritrovi la propria individualità, la propria personalità e quando si parla della inutilità della poesia - e mi ricordo che una volta durante un premio letterario, Alfonso Gatto disse, con voce roboante: "la poesia è supremamente inutile” - ingenerando evidentemente degli equivoci -, quando si parla di questa inutilità si vuole alludere invece alla sua suprema utilità, che è appunto quella che ognuno vi si riconosca e riconosca la propria individualità. Ciò spiega anche perché oggi, che si legge in fondo così poca poesia, almeno così dicono i librai e gli editori, se ne scrive tanta - io sono in molti premi di poesia, arrivano centinaia di libretti di giovani -, e in questi libretti, anche laddove c'è un atteggiamento assolutamente nichilista di negazione della vita, di negazione dei valori, io leggo invece un atteggiamento di amore per la vita, perché chi, per esprimere questi aspetti negativi, si volge alla parola, a questo strumento primo della comunicazione del rapporto, evidentemente vuole stabilire questo rapporto, cerca l'ascolto, cerca il colloquio, ecco, e questo è già una testimonianza, io credo, d'amore, perché questo in fondo la poesia è sempre poesia d'amore. Non lo dico, in questo caso, perché molti critici dicono che io sono prevalentemente un poeta d'amore, cioè che l'amore c'è anche nelle poesie che hanno apparentemente un'altra tematica, una tematica legata alla nostra condizione sociale, al pensiero della morte, al pensiero della destinazione ultima dell'uomo. Ma perché, appunto, la poesia è sempre un fatto d'amore, perché una volontà di comunicazione, di legame con altri, l'espressione poetica diventa una mano tesa. E, scrivevo ancora in questa breve nota.

Luciano Luisi: 00:24:09 Il poeta è scoperto, indifeso. Il chirurgo, il giudice, lo scienziato, il filosofo possono operare con il solo talento, dando la parte migliore e nascondendo sè stessi. Solo chi compie l'operazione di scrivere poesie si consegna fino in fondo, non solo l'ingegno, ma il carattere, gli umori, la natura, le idee, la moralità, la sua intera personalità in gioco. I suoi versi sono specchio e radiografia. Questo giustifichi le contraddizioni che ogni libro contiene. Ecco, quindi proprio questo essere indifeso, questo essere scoperto, fa sì che il poeta non possa in nessun caso mentire, la poesia è assolutamente vicina alla verità, forse. Non voglio ripetere un concetto troppo logoro, è strumento di conoscenza come si soleva dire tanti anni fa, ma oggi certe espressioni sembrano diventate tabù, non si può più parlare di ispirazione, non si può più dire che è strumento di conoscenza, ma io credo che lo sia, come in fondo con i suoi strumenti lo è la filosofia o come lo è la religione. Strumento di conoscenza perché intuisce certe verità che il poeta stesso in un certo momento razionalmente può non conoscere, ma che per una grazia, perché qualche cosa gli viene dettato, probabilmente, può arrivare a capire. Ma, dicevamo, sono un poeta d'amore, e in questo libro dove la divisione in capitoli, come ha voluto l'editore, cioè in quattro grossi libri che seguono una cronologia inversa, come dicevo, tuttavia i quattro, i quattro momenti hanno anche - non so se per caso oppure anche per delle piccole modificazioni che ho fatto all'interno delle strutture, cioè portando poesie di altre date, ma le date sono sempre in fondo, quindi il lettore potrà trovare una giustificazione dell'immissione in quel capitolo -, dicevo in ognuno di questi quattro libri c'è un contenuto preciso, così come nell'ultimo, il mio primo cronologicamente, c'è la guerra e il dopoguerra e nel penultimo c'è il senso della morte e la ricerca del divino, nel secondo, che è il più folto, ci sono le poesie d'amore. Le poesie d'amore alle quali ho dato come titolo lo stesso che avevo dato nel precedente libro e cioè, I Possibili Amori che è un emistichio di Rilke e dice: “tutta la pena dei possibili amori, notte e giorno ... sentito tornare...”. Cioè, questa nostra vulnerabilità all'amore, questa imprevedibilità della freccia di Cupido diciamo così, fra virgolette. Ecco, e in questa sezione ci sono delle... c'è una parte molto recente, che è intitolata Versi ad Aspasia. Questo nome classico mi ha affascinato anche perché mi ha consentito di giocare con l'accento e questa donna amata nei momenti in cui l'amore diventa dolore diventa “aspasìa”. E adesso vi faccio sentire alcuni di questi momenti. In fondo, sono ventotto poesie che si potrebbero leggere tutte di seguito, quasi come una storia, e qui ho tentato, anche stilisticamente, di usare metri e linguaggi diversi, secondo gli stati d'animo, e anche qui torno a quella mia volontà di essere, di fare una poesia un po' teatrale e, voglio dire, colloquiale, rappresentativa.

Luciano Luisi: 00:28:08 Questa è la prima.

Luciano Luisi: 00:28:10 Pronto, chi? Mi ripeta, ma in che lingua ha parlato? E certo sia così che va pronunciato quel nome? Aspasia, Aspasia. Ora senza accorgermi grido, è proprio certo anzi che esista davvero quel nome, ed io come smarrito dubitando mi dico, forse mi sono inventato un nome che volevo rispondesse al volto che tanto ho sognato? E ancora mi dico che forse non è fatto di lettere, non è parola, non ha suono ma è soltanto in me, un pensiero struggente che mi porta da te. Rifaccio il numero, provo per la millesima volta a chiamare il tuo nome nel vuoto, ma sono troppo stanco per insistere e troppo per pensare. Senza neppure accendere la lampada mi spoglio, mi infilo nel letto, mi copro fino agli occhi, e così, libero di inventarti, ti continuo a cercare.

Luciano Luisi: 00:29:08 La seconda.

Luciano Luisi: 00:29:10 Ti cerco dove non sei, sapendo di non trovarti, come sognando si voltano al canto delle sirene a lungo i marinai, perché tu solo in questo esisti, nel mio cercarti.

Luciano Luisi: 00:29:31 Nove.

Luciano Luisi: 00:29:33 Penetro in te, amore mia conchiglia,/ come un murice al fondo del suo nicchio,/ fino a confondermi, fino a farmi cieco,/ e non mi giunge più l'eco del mondo./ Ma che tristezza e sgomento nel morirti/ dentro, e quietarmi, e cominciare a perderti/ quando riapri gli occhi sulla vita.

Luciano Luisi: 00:29:58 Quattordici.

Luciano Luisi: 00:30:00 È la polvere, è soltanto la polvere, ti dico/ passando a cerchio la mano sopra il vetro/ che subito svela profonda la valle, il serpente del fiume/ che scivola, s'insinua, si nasconde e scende/ a tuffi, a salti. È soltanto la polvere/ - ti ripeto guardandoti - ma basta poco a spegnere/ la luce, a cancellare la chiarezza./ E mentre su per i tornanti la macchina/ s'affanna, gli occhi, le gore limpide/ cercano dove posarsi, dove chiedere aiuto/ al paesaggio, che si snoda dolce/ persino là nelle sue gole d'ombra/ anche se già una nuvolaglia torbida/ ci viene incontro con la sua minaccia./ E questo nostro amore che ci dà/ la vita e ce la toglie,/ che si impenna e precipita,/ è come i monti che sembrano/ a noi inquieti negare l'orizzonte,/ ma da altre valli, da altri nuovi prati/ già sale il fiato, e noi/ ci sfioriamo le mani turbati/ come l'erba sul ciglio che ora/ al breve vento delle ruote trema.

Luciano Luisi: 00:31:14 [Ventidue] Sei divisa da me non più che un passero/ dall'aria, che sempre lo avvolge/ ovunque salga nel volo, e ne porta/ l'odore nelle piume./ Sei lontana da me/ come dal cuore il polso che ne ascolta/ fedele tutti i battiti, e la notte/ dal giorno, che inseguendosi/ a lungo si confondono./ Ti separi da me come la vita/ che d'un passo ogni giorno si allontana/ ma quanto più mi lascia più mi chiama.

Luciano Luisi: 00:31:46 È l'ultima.

Luciano Luisi: 00:31:49 S'è inaridito il frutto, che insaziabili mordemmo a lungo avidamente insieme, e a che vale se manchi, che io tenti inutilmente di riaccenderlo quel profumo che inebria, quel rumore che arde, che disseta? E io ancora incredulo mi dico, ma come chi si volge alla sua casa lasciandola per sempre, via, cancellala dalla tua vita, Aspasia, la tanto amata Aspasia non fu che un sogno d'incubo, ridestati. Via! Quel suo viso d'angelo dal cuore, via! Quella sua tenerezza dalla mente, l'odore del suo corpo, dei miei sensi, via! Dal sangue il furore che riattizzava il fuoco dalla cenere, respingendola grido: aspasìa, togliti dal mio sguardo, prenditi la tua ombra che mi insegue, oh bifronte aspasìa che fondi spade, aspide, che mi inietti atroci spasmi, mio inguaribile morbo, malattia. E allora sia ciò che la vita vuole, ma ricordalo, qualunque cosa accada, sono stato nella tua vita, e tu sei nella mia.

Luciano Luisi: 00:33:01 Ecco, da questo veloce percorrere questo poemetto Ad Aspasia, avrete forse sentito citare, in una poesia, il murice, la conchiglia, il murice e il nicchio. Questi riferimenti alle conchiglie si debbono ad un fatto privato: io sono un collezionista di conchiglie, si dice pomposamente un malacologo, ma la parola è stata adesso giustamente rifiutata dagli inglesi, perché malacologo significherebbe studioso di molluschi e probabilmente la maggior parte dei collezionisti non hanno mai visto altro che i molluschi che si mangiano a tavola, nei bivalvi. In realtà, si dovrebbe dire “conchigliologo”, come è stato proposto. Ecco, queste conchiglie sono un interesse che abbina tanti amori, quello estetico, quello della ricerca, delle domande sulla natura e, una volta che è venuto a trovarmi Mario Pomilio - io ho una grande cantina, trasformata in un piccolo museo di conchiglie, molto suggestive, con grandi, tante luci -, mi ha detto “portami via, perché qui mi sento in un altro mondo e non capisco più niente.” e allora gli ho ricordato una bellissima frase che diceva l'architetto Wright, quando insegnava architettura mostrando certe conchiglie, dalle quali sono state mutuate le forme di certe case, perché la pagoda è una conchiglia dalla quale i cinesi hanno copiato, la loro pagoda. E Wright diceva "io sono ateo, non ho mai capito quelli che vedono la presenza di Dio nella natura, la sospetto solo nelle conchiglie.". Ecco, questo fascino delle conchiglie mi ha sempre accompagnato e, stranamente però, non ho mai dedicato una poesia ad una conchiglia specificamente, ma ne ho dedicate quattro invece ad una donna, e in ognuna di queste c'è un'immagine di conchiglia. È necessario che vi dia qualche piccolissimo chiarimento perché possiate comprenderla. In questa, che è intitolata Il murice, - il murice è una conchiglia, una famiglia di conchiglie, ma è molto comune, perché è commestibile, è una conchiglia con delle spine, con un lungo canale sifonale, cioè con una lunga coda, diciamo, ed è chiusa da un tappo corneo che si chiama opercolo. L'animale se ne serve per difendersi dalle aggressioni -, e quindi io immagino che questa donna giovane che mi guarda con spirito critico in me, il desiderio di ... immagini in me questo desiderio di ritrarmi dentro la mia ipotetica conchiglia e di chiudermi con l'opercolo. E qui si accenna anche ad un altro fatto, che mi ha sempre lasciato riflettere, mi sembra, estremamente suggestivo, che una piccola conchiglia di pochi grammi vive in fondo ad un oceano e subisce una pressione di tonnellate, non so esprimerla in termini precisi. Indifferente, perché è il suo elemento, appena questo animale muore diventa soltanto un aggettivo di pochi grammi, quindi viene sbattuto violentemente come un qualsiasi altro sassolino che si trovi in fondo all'oceano.

Luciano Luisi: 00:36:32 Il Murice.

Luciano Luisi: 00:36:35 Anch'io questa che già deve difendersi/ mia vita, dall'unghia del tempo,/ dove fra ombre che crescono, raro/ un bagliore serpeggia, questa già stanca vita/ che, mi dico - guardandola come se in fuga passasse/ sopra uno schermo sbiadito - non può/ essere questa la mia, già così lunga voltandomi,/ ora vorrei con umiltà nasconderla/ al tuo sguardo impietoso che indaga, come fa/ ad ogni allarme un murice chiudendosi/ nel suo nicchio protetto dall'opercolo,/ e come lui resistere all'affanno/ dell'oceano che preme al suo peso./ Ma tu scrolli le spalle e cancelli/ le ombrose ubbie e mi sfiori con la mano/ ridendo. E allora sia! M'inonda/ la tua voglia di vivere,/ né l'ironia più mi difende, sono/ un arenile che s'Asparrende all'onda.

Luciano Luisi: 00:37:32 E a proposito di conchiglie, io andavo spesso a trovare Eugenio Montale quando andavo a Milano. E Montale, soprattutto negli ultimi anni, probabilmente con poca memoria, ogni volta mi mostrava una bellissima conchiglia che aveva sui libri, conoscendo la mia passione. Era una conchiglia che si chiama la tibia fusus, che ha una sorta di prolungamento del suo corpo che può raggiungere anche i 20 centimetri, una spina lunghissima, quindi una conchiglia di grande eleganza. Ecco, è a proposito del pensiero che Wright faceva, aveva sulle conchiglie, invece mi stupiva e mi colpiva questa assoluta mancanza di ricerca in Montale di una qualsiasi finalità soprannaturale dell'uomo, sì, lui diceva di essere assolutamente ateo, e io scrissi allora questa poesia, che per rispetto, non pubblicai fino alla sua morte: La Tibia Fusus.

Luciano Luisi: 00:38:34 Il vecchio poeta la tiene posata sopra i libri, e me la mostra con compiacenza estetica, la lunga tibia fusus, armata d'una spada, così dice celiando, che è tesa per difenderla dagli ignoti pericoli del mare. Né quella forma perfetta sa incrinare col dubbio la sua certa mancanza di fede. L'osserva, elegantissima, dice, non altro, ma cede di fronte a tanta inutile bellezza solo a qualche domanda sul mistero degli abissi, non sa d'altri misteri, o non li vede, neppure ora che l'ora è più tarda. Né s'avvede, pago di ciò che sa, di ciò che crede la verità, la sola, la visibile, di quanti pochi passi il nostro piede avanza fra cortine che ci avvolgono, come i suoi stanchi e brevi nel chiuso d'una stanza.

Luciano Luisi: 00:39:37 Questo libro del quale vi sto leggendo, contiene anche una raccolta che uscì inedita nel 1980, e che ha per titolo “La vita che non muta”, con la quale vinsi un premio per inediti, che aveva in giuria Bo, Testori, Marabini, Caproni, Fabiani. Questo libro nacque quasi da una sollecitazione esterna. Venne a trovarmi un ragazzo che faceva il fotografo e mi disse "che cosa mi suggerisci per fare un libro di fotografia?" Io gli dissi, innamorato com'era di un giardino, in una casa al mare che avevo da pochi anni, "picchetta un metro quadrato di giardino, fai migliaia di fotografie su questa terra, su questo metro quadrato, scoprirai la vita, l'universo, il nascere, il morire, come cambiano le ore del giorno, come cambiano le stagioni." Lui non fece questo libro di fotografie, invece in me nacque questo libro di poesie sulle, sulle piante, sul giardino. Basterebbe che vi dicessi i titoli: L'eucalipto, La terra, Le formiche, Il polline, Le Pratoline, Il ranuncolo, La pioggia, L'autunno, Il passero, La rondine, La quaglia, L'erba, I migratori, L'Ulivo, Il vento, per darvi idea di come appunto sia la natura, la protagonista di questo libro.

Luciano Luisi: 00:40:59 Ma ho detto L'ulivo, e anche se non è la prima, e tornerò poi invece su una motivazione più generale di questo libro, questo ulivo mi ricorda una presenza che è abbastanza assidua, in questo mio volume ormai quarantennale, e cioè quella del padre. Ve ne ho parlato all'inizio, ma mi sono stupito, in fondo, rileggendo, perché quando si è bambini e ci viene chiesto chi si ami di più - probabilmente si dice sempre “la mamma” - e invece in me, così da adulto, la figura del padre è cresciuta, per cui ci sono più testimonianze per mio padre che per mia madre, probabilmente anche perché è morto giovane, aveva 57 anni. E faccio un salto di tempo indietro e torno a quel libretto che ho citato prima, Sere in tipografia, dove c'erano diciotto poesie per la morte del padre. Vi torno perché l'Ulivo che ho citato mi riporta al padre, e ve lo leggo dopo, perché più recente, ma sempre sulla sua figura. Ecco, in queste diciotto poesie intitolate Messaggio a mio padre, sono parte riflessioni sulla morte, parte sulla sua vita di uomo del Sud, che aveva come vi dicevo conquistato un'altra posizione, un'altra visione della vita.

Luciano Luisi: 00:42:28 Ora sei calmo, finalmente, hai pace./ So che sei morto, non ho più paura/ che tu debba morire, non ho più/ paura del tuo cupo, lungo rantolo/ che dilatava i muri della stanza/ del tuo respiro che chiedeva aiuto/ al fiato del mio petto/ del grido dei tuoi occhi a supplicarmi.// Sono stanco, lo sai. Non ho paura// ormai di addormentarmi,/, di piegare la testa sul tuo letto,/ di mescolare alla tua larga quiete/ disumana, il mio sonno affannato./ E non ho più l'angoscia d'esserti inutile come un nemico:/ so che sei morto, hai pace,/ è tornato il silenzio.

Luciano Luisi: 00:43:13 E, della stessa raccoltina.

Luciano Luisi: 00:43:17 Che senso ha avuto la tua vita, amara come è stata la tua meridionale rassegnazione, il tuo mortificato piegare il capo ai giorni senza luce. Ti appoggiavi all'orgoglio della tua antica razza contadina, alla raggiunta fierezza borghese che non si logorava come i gomiti. Nelle grigie serate l'architetto eri tu di impossibili castelli, e noi, che pieni d'occhi, ascoltavamo ci sentivamo col vestito a festa. Le tue rare speranze squillavano soltanto sui biglietti delle tombole, ma tristi e irraggiungibili come le veneri dei camionisti.

Luciano Luisi: 00:43:59 Ecco, la figura del padre torna in questo giardino, perché ho voluto farci piantare un ulivo, che ricorda la Puglia di mio padre e la Toscana di mia madre. Mia madre è morta che aveva 72 anni, quindi a distanza di anni da mio padre. Siamo ora nel 1980 con questa poesia.

Luciano Luisi: 00:44:24 L'ulivo.

Luciano Luisi: 00:44:26 Questo che ora con fatica innalzano Ulivo antico, in un esiguo spazio, non le aspre onde delle colline di sassi e per confine le nuvole, ma il muro di cinta e la casa, sei tu padre che torni a ritrovarmi in questa mia età che tenta stupita di raggiungerti. È la Puglia matrigna della tua giovinezza troppo rapida, e qui, con le pietre che pongo a corona del suo piede, ricerco quell'immagine che negasti per sempre con la fuga, ma nella chioma che già canta aprendosi con dolente rintocchi riecheggiano i tuoi giovani anni macerati dalla pazienza che soffoca il grido, e la tua voce spenta fa eco a quei lamenti. Vedo ancora l'Ulivo ad accoglierti nel paesaggio mutato, più dolci sono nei colli toscani al tuo passo quietato, e mia madre è con te, mescola al tuo il suo più chiaro idioma da compagna per un tratto di strada, all'improvviso tende le braccia, le mani a trattenere la tua mano già esangue che le sfugge, perché senza voltarti t'allontani, quando la mente ancora chiede e il sangue corre al suo ultimo miele? Qui soltanto ritorni. I prati, nel mio pensiero accanto a me che sono tuo figlio, che ha quasi i tuoi anni, e che può amarti ora come prima non seppe, e qui nell'ombra dell'ulivo tenta così di ritrovarti.

Luciano Luisi: 00:46:06 E da questo La vita che non muta, ecco, quella che forse dà il senso di tutta l'intera raccolta:

Luciano Luisi: 00:46:15 Le immutabili immagini.

Luciano Luisi: 00:46:19 E come potrei non amarvi liberi uccelli di passo/ e tu stento ruscello che a fatica attraversi/ questa vallata per giungere al mare,/ e voi, così indifesi,/ alberi gravi di tempo: segni, forme d'un comune destino,/ immutabili immagini fraterne/ in cui posso con pena riconoscermi.// Ma in voi come fiorisce,/ dall'ombra che l'opprime liberandosi,/ l'anima appesa sulla sua caduta,/ ora che qui la guarda e qui l'intende,/ la vita che non muore, che non muta.

Luciano Luisi: 00:46:58 Il titolo della raccolta nasce da questo ultimo verso, e mi fu suggerito da Claudio Marabini, ché c'è sempre un imbarazzo nella scelta di un titolo.

Luciano Luisi: 00:47:09 Ecco, ancora da questa, La terra.

Luciano Luisi: 00:47:14 Questa mano, che ieri sul tuo corpo abbandonato al mio fianco ha chiamato i tuoi lamenti scava ora dentro la terra a ricercare il suo umore segreto, la linfa che in lei porta la vita come in te il sangue irrora il seme che fiorisce. E così, vita a vita, si congiunge nello stesso mistero, e la domanda si ripete laggiù, dove la macchia cede alla sabbia, al mare, e quei canti e fruscii e gridi e gemiti, che il vento porta ed allontana, tacciono, a quel limite d'acqua, ma non muta, in quella notte gelida di grembo in grembo, il corso di questo eterno evento, dal silenzio che si inabissa. Un altro pieno corale della vita giunge al mio proteso ascolto, qui, in ginocchio, tra fiore e fiore, muovendo con le dita le zolle, sento che batte all'unisono il polso sulle mie vene, l'humus della terra, ultimo grembo a generarci adulti, tesi a fondo la mano, entro profondo, nella mia sostanza.

Luciano Luisi: 00:48:26 E ancora una, da questa raccolta che mi ricorda che, in fondo, questa mia chiacchierata sarà ascoltata quando io non ci sarò più.

Luciano Luisi: 00:48:35 L'eucaliptus. No, al contrario, scusate, Il ranuncolo

Luciano Luisi: 00:48:43 Questo rosso ranuncolo che pianto in poca terra, avrà vita breve ,vivrà, ma nel prato splendente, nel suo rosso, il tempo d'una estate, “stagionale” mi dice il manuale che ho comprato ieri all'edicola e porta il mio stupore dentro folti misteri. Ciò vuol dire che alla sferza dei venti dell'inverno dovrà morire. Solo sulla pellicola sensibile del mio ricordo continuerà, sempre rosso, a fiorire. Ma come l'erba, ora che nelle crepe delle mura cresce, porta vita, gestisce nell'arsura le mie segrete fibre e penetra il sole, le esalta, le sfinisce e questo poco basta, per non credere, non sapere che anche il caldo battito del sangue, musica che m'accompagna, mia vita, si spegnerà, fiore anch'esso che perde il suo colore, stagionale.

Luciano Luisi: 00:49:39 Ecco, volgendosi ora verso la fine questa mia conversazione, sarà opportuno che sottolinei un aspetto di questa poesia, nella quale credo e che in fondo lega le mie ultime poesie a quelle lontane della prima stagione di guerra, che furono definite, facendo in fondo spesso di ogni erba un fascio, neorealiste. L'accusa era che noi facevamo una poesia di cronaca, una poesia che si muoveva dalle cose, che nasceva visivamente dalle cose. Ma quello era il paesaggio che si offriva ai nostri occhi, e del resto in quegli anni uscirono libri di poeti che erano stati maestri anche nella stagione ermetica, e non parliamo soltanto di Gatto, ma anche versi per esempio di un poeta come Montale, che scrisse “sul muro, dove si leggeva morte a baffo buco hanno passato una mano di calce”. Voglio dire che nella sollecitazione della realtà, della cronaca, parola che noi amavamo e che continuiamo ad amare, era una sollecitazione troppo forte per poter essere elusa. Ora, questo rapporto con la realtà, questo modo di guardare visivamente la vita, ha continuato ad essere un po' in fondo determinante nella mia poesia. C'è anche il fatto che io mi occupo professionalmente di pittori, ho insegnato Storia dell'Arte all'Accademia, scrivo monografie di artisti, ho vissuto a lungo in grande familiarità con pittori, per cui il mio modo di guardare la realtà è un po' lo stesso modo che hanno loro, insomma, io guardo prima con gli occhi e ascolto poi i riflessi che questa realtà che ci circonda ci dà nell'animo. E però contro la definizione di neorealista, io posso opporre che in fondo la mia poesia è una poesia sempre individualistica, e anche in testi più recenti, dove questa realtà, fino alla cronaca, fino alle citazioni di brani di giornali, è presente, è sempre una realtà che si commisura con una condizione esistenziale, una condizione individuale. Ecco, già nella prima parte di questo libro, quindi nella parte più recente, sotto ad ogni titolo c'è una motivazione esteriore, direi “montalianamente”, c'è indicata l'occasione che l'ha suggerita: la serpe, seguendo una trasmissione televisiva, la mano, per un bambino ucciso dal terremoto, aborto, dopo aver letto una lettera di una donna nella posta di un giornale, e così via, quella della tibia fusus che vi ho letto era di una visita poi ad Eugenio Montale. C'è sempre un rapporto tra questa realtà esterna e il nostro privato. Vi do due esempi che sono lontani nel tempo e che stanno a testimoniare, credo, di una certa coerenza in questo modo di guardare la realtà e di percepirla.

Luciano Luisi: 00:53:17 Le coppie. Questa è stata scritta nei giorni del conflitto arabo-israeliano, ed è del '67.

Luciano Luisi: 00:53:29 Con tutto il peso della morte, guardo all'imbrunire le coppie che fanno teneri i prati, amandosi tra gli alberi caldi di foglie. È tornata l'estate, e mi trova al principio di un viaggio. Così, stupito, in quest'aria che d'ala in ala, di fiore in fiore, desta la terra dal letargo, d'impeto corro sull'erba, ma i passi ora che ansioso mi volto illudendomi, già sono il mio passato, scavano un solco nel prato che pareva accogliermi. La vita che vedevo è divisa da un vetro, ma un uomo mi richiama chiedendomi se porti al paese il sentiero che s'infolta nel bosco, dice, confuso, che torna a casa dopo tanto e guarda gli alberi che non riconosce il profilo interrotto dei colli. Con un gesto di mano gli rispondo, più fraterno d'ogni parola, umano come gli sguardi che a lungo ci accompagnano, ora che ognuno riprende la sua strada. Ed io, le coppie che già diventano ombre, se ancora per un attimo mi volto uscendo da questa magia, nitidamente rivedo. E persino più tardi, ormai chiuso in una stanza, mentre sfoglio i giornali, non ho la pace nel mio sangue, penso, anche se l'ombra già vi cresce, e intanto leggo titoli neri di guerra. Urlano le sirene contro i cieli d'Arabia, l'uomo insonne stanato dai letti provvisori con tutto il suo terrore d'animale fugge. La civiltà, come i palazzi di cemento armato, è inutile, ora sa nella violenza di essere nato solo, ora scopre la fame, come un ginocchio gelido che preme sulle viscere, ma intatte sulle immagini di guerra che deste al fondo della mia memoria riportano quasi alle nari, l'odore acre di gas e morte tra la polvere ad aggredirli vivide ritornano quelle coppie che s'amano liberamente sui prati. Sopra l'ombra del mio presentimento o sulla furia che ci spinge in bilico sul baratro si stampano le invulnerabili coppie, e così, rasserenato, accetto il fastidioso sciame di moscerini che danzano tra il mio viso e la lampada.

Luciano Luisi: 00:55:54 Ecco, dal '67, un salto di molti anni. Qui vedete la mia metrica si è già franta, anche se rivela la mia fedeltà, alla quale non intendo rinunciare per motivi di mode passeggere, la mia fedeltà alla versificazione tipica della poesia italiana, quella fatta di settenari e di endecasillabi. Dicevo, da queste coppie, si passa ad una poesia invece abbastanza recente, che ci ripropone un'altra guerra e che propone anche quella incruenta guerra che c'è in ogni casa, cioè le persone care anziane che muoiono e le figlie che si sposano - ne ho due sposate - e quindi una famiglia che, da numerosa, diventa sempre più piccola.

Luciano Luisi: 00:56:56 A cena (seguendo una trasmissione televisiva sulla guerriglia nel Vietnam) - siamo nel '77, sono passati esattamente dieci anni -.

Luciano Luisi: 00:57:07 Ti dico “mondo mio” mentre apparecchi/ mezza tavola solo per noi. E laTV/ che l'ultima difesa è stata vinta/ - dice - e il villaggio è tutto in fiamme/ e una donna che fugge dal suo destino di morte/ e per un attimo si volta a quel rogo, ora guardi/ posando i piatti, e quegli occhi/ senza più odio né dolore, gelano/ il nostro rito sereno, lo sconvolgono i pianti/ dei superstiti in fuga: Ti siedi/ davanti a me già stanca, e dalle stanze/ silenziose ti giungono altre voci/ lontane, spente e s'anima (la vedi)/ una tavola grande imbandita. Anche il lento/ mutare della vita che non sbaglia/ ha il suo dolore. E spengo (ma cancello/ quelle immagini ormai dentro di noi?), ripeto/ a difesa (ma è giusto?) “mondo mio”,/ poso una mano sulla tua mano/ da un capo all'altro della tovaglia.

Luciano Luisi: 00:58:07 Ecco, questo sta a dire come la concretezza sia ancora uno degli ideali che ci proponiamo, e, dicevo l'altro giorno durante un'intervista che mi è stata fatta, che in fondo a quella prima lontana stagione, così insieme infelice e felice, che era la stagione della nostra giovinezza in quell'immediato dopoguerra, a quella lontana stagione noi dovevamo una lezione fra le altre, che la poesia sia e continua ad essere, come credo debba, testimonianza. E lo stesso concetto c'è in questa poesia, dove ritroverete forse gli stessi titoli che negli anni, i giornali di quegli anni, si leggevano, se qualcuno vorrà sfogliare, quei lontani giornali del 1977, “nella città del fuoco”, nei giorni caldi dell'eversione a Roma.

Luciano Luisi: 00:59:11 Amore come posso/ chiamarti “amore”/ mentre qui intorno nel quartiere sparano/ le P38, assaltano le banche,/ la spesa proletaria costa sangue, giovani, a macchie, lungo i marciapiedi, e le sirene sono ormai la nostra rabbrividente musica. E come posso rimuovere la terra dentro i vasi sul balcone, aspettare in questo odore che mi porta via, nell'aria invernale, già tiepida, il tramonto? È l'ora della cena, la tua rassicurante voce che chiama, accarezzare il gatto che fa le fusa, e mentre al fuoco delle nubi vedo dietro i vetri levarsi uno [sgolo], dirti "ma come posso? La vita è amore. Se a uno scoppio saltano alla Volks Wagen le serrande e ai gridi dei ragazzi che fuggono è il dubbio, nebbia che mai li acceca, che scoppia in me a dilaniarmi. Eppure ora che è notte e nel silenzio i battiti del tuo cuore tumultano nel mio orecchio, dentro l'eco dei passi di un uomo che rincasa, che soprassalto, il portone che sbatte o al pensiero di quelli che vagano, inafferrabili mani in agguato, nel fiato della luna sento che ovunque l'ansia li sospinga, tutti sono una sola comunione di anime che cercano. E come posso ora, quieto, nel riverbero della strada ovattata dai suoi lumi, se fra i rari passanti fugge un'ombra inseguita dagli spari, ripeterti, cercandoti nel tepore del letto, tutto è vita, e la vita è la luce degli uomini. Ma tu pensi “ecco il credo immutabile di chi non vuole invecchiare”, ti dico, quasi sentendoti, “credo nelle gemme sui rami che parevano morti.” e tu con il tuo sguardo che dubita e la paura che ti fa serrare a doppia mandata la porta. Non destarmi da questa fede, nel tuo grembo accoglimi. Anch'io gemma che vuole la vita e non dirmi che tutto è vano, è una speranza inutile come chiudere l'acqua fra le dita, tutti siamo braccati, non c'è scampo. Ma tu, che mi ostino a chiamare amore, anche se il mondo irride, è il tempo è già contro di noi, ascolta questa parola fra tante che insidiano e credimi, mentre ancora illudendomi sfido non la morte, la vita.

Luciano Luisi: 01:01:41 Ecco, mi pare che queste poesie probabilmente, se lette a distanza di anni, possono darci anche il clima di un'epoca, il ricordo di una stagione che per molti versi è stata inquietante ma estremamente stimolante perché abbiamo coscienza, consapevolezza di essere in un mondo che cambia sotto i nostri occhi. Io credo che anche al poeta nella sua presenza, non so se umile o privilegiata, tocchi il compito di dare un segno, di dare testimonianza di questo mutamento. E, per concludere questo mio incontro, vorrei dire, prima di leggervi una poesia inedita, che, in fondo, la mia aspirazione massima sarebbe di poter far mia la frase che mi diceva giorni fa, Giorgio Caproni, durante un'intervista che gli ho fatto per la televisione: “quando si legge, uno legge un poeta vero legge se stesso”. Mi accontenterei che un mio lettore si ritrovasse, ritrovasse le sue sensazioni d'amore, le sue sofferenze di fronte alla morte di una persona cara, le sue emozioni di fronte a un paesaggio, allora questi quarant'anni di lavoro non sarebbero stati spesi invano. Una poesia dell'87.

Luciano Luisi: 01:03:16 D'amore.

Luciano Luisi: 01:03:20 Pensami morto, guardami/ dentro i tuo sogni che un tempo/ straripando, abitavo,/ su quello stesso letto dove il giorno/ sorprendeva la notte e la luce/ nemica a noi, scopriva/ sospesa la parola dell'addio.// Pensami morto, gelido/ su quel caldo cuscino sgualcito/ dal nostro vivo sudore,/ con la mia mente spenta,/ abbattuti per sempre gli sfrenati ippogrifi,/ con le mani serrate che chiudevo/ a coppa sul tuo viso e scivolavano/ sopra il tuo corpo come l'acqua corre/ alla terra che s'apre assetata,/ con gli occhi chiusi dove, stupita,/ leggevi la verità che negavi./ Ma ora, non ora che mai più/ starmi vicina potrai,/ dove il tempo resiste alla sua fuga/ immutabile nell'infinita distanza della morte.// Oh, pensami così per ricordarmi,/ per ricordarmi per sempre.

Luciano Luisi: 01:04:25 Grazie.

Luciano Luisi: 01:04:27 Dalla Discoteca di Stato in Roma, 24 gennaio 1987.