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Lucignani, Luciano - 1987 - Roma

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Trascrizione

Luciano Lucignani: 1:00:00:04 Oggi è l'11 aprile 1987, io sono alla Discoteca di Stato e in questo giorno io compio esattamente 65 anni e 3 mesi essendo nato, il conto è facile, l'11 gennaio del 1922. Sono, devo aggiungere, abbastanza imbarazzato parlare di me stesso, e a parlare di me stesso con l'idea che quello che dirò verrà conservato: le bugie, la sincerità, le amnesie, i ricordi troppo forti, ma comunque l'impegno è preso e quindi cercherò di mantenerlo nel modo migliore. Vorrei leggere una poesia di Borges piuttosto recente, ho dimenticato chi è che l'ha tradotta, è tratta da un volume intitolato I Congiurati, poi dirò perché, perché la leggo, si intende.

Luciano Lucignani: 1:00:01:01 “Un uomo in grigio”: L'equivoca fortuna decise che una donna nulla amasse. Questa storia è la storia di chiunque, ma di quante vi sono sotto la luna è quella che più duole. Avrà pensato di togliersi la vita, non sapeva che quella spada, il fiele, l'agonia erano il talismano lui donato per giungere alla pagina che vive assai oltre la mano che la scrive e l'alto vetro delle cattedrali. Compiuto il suo lavoro oscuramente, fu un uomo che si perde fra la gente. Ci ha lasciato però, cose immortali. Jorge Luis Borges da I congiurati.

Luciano Lucignani: 1:00:01:47 Ecco, tranne per l'ultimo verso, quello che si riferisce alle cose immortali lasciate, io mi riconosco abbastanza in questa poesia che è in qualche modo, almeno a mio avviso, una specie di biografia. La poesia di Borges era dedicata a un certo Enrique Sancha, che io non conosco di cui non so niente, ma andrebbe bene anche se sopra ci fosse il mio nome, ripeto tranne l'ultimo verso. Da ragazzo non pensavo minimamente che avrei fatto nel teatro, del cinema le cose, il giornalismo quello che ho fatto Borges. Andavo a scuola sempre prendendo autobus e tram, i mettevo in piedi accanto all'autista o colui che guidava il tram, e mi pareva che non ci fosse nel mio futuro mestiere migliore che quello di guidare i tram e di guidare gli autobus. Perché? perché sotto sotto c'era una voglia al comando, c'era una voglia alla decisione, una decisione che coinvolgesse gli altri, in fondo anche se l'autista rispettava le fermate, i divieti, le precedenze e così faceva colui che guidava il tram, era sempre qualcuno che decideva dove portare le persone che stavano sulla vettura di filiera dove portarla. La linea era quella si sapeva benissimo che passava vicino a un posto, dove io scendendo, dopo pochi passi sarei entrato nella scuola. Ma comunque c'era nella visione di questa persona l'idea che fosse una guida e a me piaceva l'idea di poter essere un giorno una guida, poi come succede, i sogni dei ragazzi, mano a mano che loro crescono diventano meno reali, sbiadiscono, la realtà delle cose che c'è intorno si fa più viva, e io naturalmente cambiai idea, in modo molto irrazionale, vissi fino all'età intorno ai vent'anni, cioè facendo quello tutti fanno, facendo le scuole medie, le elementari, le medie il liceo, passando all'università, scegliendo per ragioni familiari inizialmente la facoltà di medicina, ma subito dopo la prima lezione di autopsia durante la quale almeno, all'inizio della quale io svenni, cadendo per terra proprio dal banco, e alla fine della quale il professore che aveva fatto l'autopsia mi disse io le consiglierei di cambiare facoltà. Dopo dicevo questa iniziale presenza medicina passai a fare legge. Perché i miei, visto che non potevano avere in famiglia un medico, decisero che tanto valeva almeno avere un avvocato, in realtà nemmeno l'avvocatura era nelle mie corde o nelle mie mete, nelle mie intenzioni, tant'è vero che iscritto all'università nella facoltà di legge frequentavo soprattutto quella di lettere.

Luciano Lucignani: 1:00:04:57 A un certo punto il professore meno bravo però voglio dire andavo bene, facevo i miei esami, quasi tutti se non proprio con il 30 e lode il 27, 28, 29. Il professore Cesarino Vidal Sforza, anzi sbaglio scusatemi, a un certo punto il professor Villa Cesarini Sforza mi dette la tesi, era il periodo in cui già a Roma cominciavano a scorrazzare i tedeschi, e a me parve un'occasione buona quella di chiudermi in biblioteca nazionale, che allora era in via vicino a Corso Vittorio, dietro il corso insomma. Mi parve un'occasione buona, quella di chiudermi dentro la biblioteca a studiare e a preparare la mia tesi. La mia tesi era questa, il concetto di giustizia presso i tragici greci, o mi lessi tutti i tragici greci e alla fine di questa abbondante lettura decisi che non avrei mai fatto la facoltà di legge non avrei finito, cioè la facoltà di legge, non avrei discusso la tesi con il Professor Cesarini Sforza, ma avrei fatto il possibile per iscrivermi all'Accademia d'Arte Drammatica e fare il teatro, le tragedie di Sofocle di Eschilo ed Euripide mi avevano convinto, mi piaceva di più, erano più interessante, più vivi. Feci la domanda all'Accademia d'Arte Drammatica, i posti erano già tutti quanti - i concorrenti voglio dire erano molti - davanti a me c'erano già altri che avevano vinto il loro posto, uno dei quali era Luciano Salce, che in quel momento però era prigioniero nel campo di Mauthausen, prigioniero dei tedeschi, e fui ammesso fuori concorso, per la simpatia che mi aveva perlomeno in quel momento dimostrato Silvio D'Amico, il presidente dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica. Feci l'Accademia, ebbi come insegnanti oltre allo stesso D'Amico, di cui divenni - scusate il bisticcio - veramente un buon amico, Orazio Costa, Nera Carini, Mario Perosini, Gino Viotti per il trucco, Wanda Capodaglio come insegnante successiva di recitazione più realistica di quella che poteva insegnare la Carini, mi pare Valerio Mariani per la scenografia e per la storia del costume, questa è in breve la mia strada è il mio approdo al teatro. In accademia partecipai ad alcuni saggi, mi diploma con una commedia dramma di Maxwell Anderson, “Giovanna di Lorena” interpretata da Rossella Falk, e, finita l'accademia mi misi in cerca di lavoro.

Luciano Lucignani: 1:00:08:00 Devo dire, che la generazione alla quale appartengo io perlomeno appartiene il periodo dell'Accademia, è quella che ha dato al teatro italiano alcuni fra i nomi più interessanti, più importanti, tuttora in esercizio. Erano miei compagni di scuola diciamo: Tino Buazzelli, scomparso qualche anno fa, Giancarlo Sbragia, Nino Manfredi, Marina Bonfigli, Renzo Giovampietro, Rossella Falk, Fulvia Mammi, Raoul Grassilli, questo per citare soltanto quelli che mi vengono così, Paolo Panelli - ho detto, ho nominato Bozzelli e dimentico Panelli, che invece era praticamente il fratello più piccolo di Buazzelli. - Questa era l'accademia che io ho frequentato, la sede era in piazza della Croce Rossa, lavoravamo dalla mattina alle 8 fino alla sera anche abbastanza tardi, oltre le 8, qualche volta quando c'erano i saggi si arrivava anche a casa a mezzanotte. Fra gli allievi del corso precedente conoscevo abbastanza bene Luigi Squarzina, Adolfo Celi, Ettore Gaipa, lo stesso Salce, che poi ci raggiunse, e conoscevo anche Vittorio Gassman che era stato un mio compagno di scuola, niente di meno alle elementari. Frequentavano tutte e due una scuola che era vicino al tasso, che si chiamava la Regina Elena, in via Sicilia, una traversa di via Sicilia. Non eravamo nella stessa classe, però ci vedevamo quasi sempre verso la fine dell'anno, quando c'erano le premiazioni, e io avevo sempre Gassman davanti a me, nel senso che se lui prendeva la medaglia d'oro, io avevo quella d'argento, se lui aveva quella d'argento io prendevo quella di bronzo, se lui prendeva quella di bronzo, cosa che non è accaduta mai, io non prendevo niente.

Luciano Lucignani: 1:00:09:55 Ecco, questa di essere il secondo, in qualche maniera, nei rapporti con gli amici, anche nei rapporti professionali, è una delle cose che mi hanno caratterizzato. Io non ho mai avuto l'ambizione di essere il primo, anzi sostengo che essere il primo in molte professioni espone a tutte le difficoltà della situazione e non lascia nessun vantaggio: hai tutti gli occhi puntati su di te, qualunque gesto fai viene giudicato, analizzato sviscerato, mentre essendo il secondo c'è sempre la possibilità di far fare al primo, qualcosa da suggerire. Infatti sono stato il secondo con Gassman, il secondo più in là con Eduardo De Filippo e sono stato anche tuttora il secondo nell'ultima delle mie professioni, che è quella di consulente editoriale. Ero il secondo, di un altro caro amico, il terzo caro amico, dopo quei due che ho citato, cioè Alfredo Curcio, editore, direttore e presidente, diciamo, della casa editrice omonima che portava il nome di suo padre.

Luciano Lucignani: 1:00:11:05 Questa di fare il secondo, è stata anche per qualche momento, una piccola melanconia, così, qualche cosa che mi turbava. Mi domandavo come mai non riuscissi mai a fare un passo un pochino più forte, a superare i miei compagni. È vero che erano tutti quanti molto famosi, molto celebri e quindi il passo era difficile da fare, ma comunque il problema mi si poneva, anche perché non ero secondo soltanto in queste cose, ma ero secondo anche negli altri rapporti della vita. Se mi innamoravo di una ragazza ero sempre il secondo, perché ce ne aveva avuto un altro prima o ce l'aveva nel momento stesso, se andavo da qualche parte o mi presentavo da qualche parte per fare, per offrire un'idea, per cercare un lavoro, per fare una proposta, ero sempre stato preceduto da qualcuno che aveva avuto la stessa idea, aveva fatto la stessa proposta. Alla fine cominciai ad adattarmi a questa qualifica di secondo, cercando di fare il possibile per non diventare nel terzo, nel quarto, insomma per non scendere nella classifica. La classifica in qualche modo è importante, me l'ha insegnato il mio amico Gassman, che conta soprattutto sulla media, sui numeri, sui pezzettini di carta dove vengono segnate le cose. Insomma tenere d'occhio la classifica - io non sono sportivo, ma in qualche maniera gli sportivi mi capiranno, lo sportivo che verrà ad ascoltare questa cosa cioè mi capirà - in qualche maniera, dicevo, questa cosa ha la sua importanza.

Luciano Lucignani: 1:00:12:36 Siamo arrivati al 1949. Io avevo 27 anni ed ero uscito dall'Accademia, diplomato dall'Accademia, nel frattempo avevo fatto però altre professioni, perché un'altra delle caratteristiche è che mi annoio dopo un po' di tempo a fare lo stesso lavoro, quindi cerco di cambiare. E, arrivato a 65 anni, e diciamo che avendo cominciato intorno ai 20 a fare delle professioni, ne ho elencate un bel numero, perché inizialmente sono stato critico drammatico dell'unità, anzi prima di critico drammatico, vice critico drammatico, di colui che era il titolare, cioè Gerardo Guerrieri, sono stato assistente alla regia, appena uscito dall'Accademia di Orazio Costa e poi Di Pietro Sharoff, poi sono stato giornalista collaboratore, così, di giornali e di riviste italiane e straniere, ho fondato una rivista di studi teatrali che ho diretto per due anni, la rivista poi è finita ma non perché non avesse successo o perché non fosse fatta bene, è finita perché c'è stato quello che nel linguaggio odierno si chiama “strappo”, tra me e il Partito Comunista al quale allora ero iscritto, strappo non voluto da me, ma probabilmente nemmeno voluto da loro, voluto dalle circostanze.

Luciano Lucignani: 1:00:14:02 Un po'... Qualche giorno prima, dell'ottobre del '56, mi pare, quando ci fu la rivolta di Budapest. Io ero a Budapest una settimana prima, lo ricordo perché una settimana prima, dieci giorni, non so, cinque, insomma il clima era già quello abbastanza funereo, teso drammatico, della quiete che precede la tempesta. Era una quiete perfino eccessiva e io mi ricordo che abitavano nell'albergo nel quale venivano mandati tutti i viaggiatori stranieri, i turisti stranieri. Io venivo dalla Cecoslovacchia, ero stato a Praga e per tornare in Italia invece di fare il solito tragitto attraverso Vienna, avevo deciso di vedere Budapest, quindi mi fermai credo 48 ore poco di più. Nell'albergo dove abitavo io c'era anche Indro Montanelli e mi ricordo che una sera lì nella hall dell'albergo chiacchierando, due italiani che stanno all'estero, anche se non si sono mai conosciuti, si fanno mestieri diversi, si incontrano e diventano immediatamente fratelli, perché c'è voglia di parlare la stessa lingua e di raccontarsi delle cose. Mi ricordo che con Montanelli facevamo un esame della situazione, dicevamo: qui questa quiete è innaturale. Nessuno di noi allora sapeva niente, tranne quello che i giornali scrivevano. Poi tornato in Italia, accade quello che ho già detto che accadde, cioè le truppe russe entrarono in Ungheria, e a questo punto, qualcuno mi telefonò dalla casa editrice Einaudi dicendomi che Italo Calvino e altri avevano preparato un documento lasciato nella portineria del palazzo dove aveva sede allora la casa editrice Einaudi, cioè a dire via Uffici del Vicario 49, un documento che protestava contro l'opinione, come dire, contro la visione che degli avvenimenti ungheresi aveva dato l'organo del Partito Comunista all'Unità, il quale sosteneva che la rivoluzione, per così dire, era stata fomentata dall'Occidente, che c'erano delle spie che si erano infiltrate e che comunque, l'intervento dei russi era decisivo per salvare il socialismo.

Luciano Lucignani: 1:00:16:23 Questo documento protestava, facendo sue alcune delle opinioni esposte anche dalla stampa di destra, diciamo, perlomeno certamente non simpatizzante con quella di sinistra, e molte persone l'avevano già firmato. Quando mi dissero questo, io che avevo per perlomeno un vago sentore di come stavano le cose, visto che ero passato di lì, andai in via Uffici del Vicario e misi anche la mia firma, poi siccome dovevo andare a mettere in scena uno spettacolo a Milano, il giorno dopo partii. Seppi solo al ritorno quello che era successo, cioè a dire che l'Unità aveva chiamato i compagni che avevano firmato questo documento, ognuno di loro aveva avuto un lungo colloquio mi pare con Pietro Ingrao che allora era il direttore responsabile dell'Unità, alcuni avevano chiarito la loro posizione, altri avevano fatto quella che allora si chiamava l'autocritica, altri ancora non ne avevano voluto sapere ed erano usciti dal partito. Sono stato cercato? Non lo so, non mi hanno scritto, perché non ho trovato nessuna lettera. Fatto sta, che al ritorno a Roma, seppi da un piccolo avvenimento quello che era accaduto.

Luciano Lucignani: 1:00:17:34 Il piccolo avvenimento è questo: incontrai, in Corso Umberto, Renato Guttuso - questo l'ho anche scritto in occasione della recente scomparsa del pittore -. Con Guttuso eravamo degli amici fraterni anche se non ci si vedeva molto spesso, lui aveva disegnato i costumi per lo spettacolo mio, il primo spettacolo importante, o il secondo, per lo meno, visto che devo considerare anche quelli di Firenze, che era Madre Coraggio e i suoi figli, di Brecht, fatto a Roma. In quell'occasione io era stato nel suo studio, lui mi aveva spiegato il suo modo di dipingere, mi aveva fatto vedere i suoi quadri, avevamo parlato di pittura in genere. Insomma, tra noi c'era un rapporto abbastanza simpatico, e quando ci incontravamo ognuno dei due si precipitava addirittura nelle braccia dell'altro con abbracci fraterni, “bisogna che ci vediamo, telefonami, ti telefonerò, come vanno le cose”, i discorsi soliti che si fanno fra persone che si conoscono e si stimano, e si apprezzano vicendevolmente. Camminavo per il corso, stavo dicendo, e vedo venire verso di me Renato Guttuso. Il primo moto istintivo fu quello di andargli incontro, allargare le braccia e abbracciarlo, però vidi che il suo viso era diventato come di pietra, i suoi occhi guardavano nella mia direzione ma come se io fossi trasparente, guardavano oltre me, forse guardavano qualcun... qualcun altro, o forse voleva, come suppongo, farmi capire che non aveva nessuna intenzione di salutarmi. E allora capii che doveva essere successo qualche cosa.

Luciano Lucignani: 1:00:19:20 Telefonai ad altri che conoscevo: Tommaso Chiaretti, Aggeo Savioli, persone che erano stati miei colleghi a l'Unità, e seppi così che le persone che non avevano ritrattato la firma messa sotto quel documento erano state considerate fuori del Partito, non dico espulse perché sarebbe stato grottesco espellere qualcuno che aveva detto già che voleva in qualche modo come andarsene, ma insomma comunque erano considerate fuori del Partito. E passai, devo dire, qualche settimana in grave crisi, perché l'appartenenza a un partito politico come un club, come forse come anche a una squadra di calcio, come tifoso - non lo so perché non lo sono mai stato - è qualcosa che lega come ad una famiglia più grande. Ed io ebbi l'impressione che improvvisamente mi mancassero dei vincoli, fra l'altro tutti i miei amici erano lì, le persone che vedevo fuori delle ore in cui stavo in casa con mia moglie, erano gente che lavorava ne l'Unità o amici di persone che stavano ne l'Unità. E improvvisamente non ebbi più di questi amici, quindi non scrissi più sul giornale, la mia collaborazione con gli Editori Riuniti, che allora si chiamavano, mi pare, Edizioni di cultura sociale - no ma c'erano già anche gli Editori Riuniti, sì - si interruppero, la rivista che si chiamava “Arena”, non uscì più, arrivò, era arrivata a 13, 14 numeri, mi pare, non di più, e io cominciai un nuovo tipo di lavoro, continuai a fare il giornalista.

Luciano Lucignani: 1:00:21:05 Avevo detto, qualche minuto fa, che una delle mie caratteristiche era quella di cambiare mestiere, cioè di farne anche più d'uno contemporaneamente. Perché, per tornare al teatro, subito dopo l'uscita dall'Accademia ebbi l'offerta dal Piccolo Teatro di Firenze che però, aveva come ragione sociale, un nome diverso da Piccolo Teatro, si chiamava Circolo del Teatro di Firenze, una specie di fondazione costituita da alcuni dei più simpatici, interessanti, vivaci e bravi scrittori intellettuali di Firenze, guidati da Alessandro Bonsanti, altro mio caro amico, fra i quali c'erano anche Mario Luzi, il poeta che tutti conoscono, c'erano Piero Bigongiari, poeta e critico letterario e c'erano altri, Bruno Shaker che poi è stato critico drammatico de l'Unità - allora era Firenze ed era critico teatrale del Nuovo Corriere -, c'era Romano Bilenchi, direttore dello stesso Nuovo Corriere.

Luciano Lucignani: 1:00:22:08 L'idea di vivere in questa città straordinaria - La Firenze del '49 era molto più bella, anche della Firenze di adesso, era più quieta, c'era la possibilità di girare per le strade della notte tranquillamente, strade anche abbastanza deserte, di poter vedere con tutto comodo le bellezze architettoniche soprattutto, quelle che si vedono così camminando, il Duomo, il Campanile il Battistero - era una città straordinaria, l'ambiente nel quale vivevo e che frequentavo era uno delle migliori e io accettai immediatamente. Stetti a Firenze una sola stagione, l'unica stagione di questo teatro stabile, perché tutti i tentativi successivi poi fallirono, fallirono non tanto per ragioni economiche, fallirono credo perché Firenze è sempre rimasta la città dei Guelfi e dei Ghibellini, quindi se facevano una cosa i Ghibellini, i Guelfi facevano di tutto per sabotarla, e se facevano una cosa i Guelfi, i Ghibellini naturalmente si comportavano allo stesso modo. Quella volta per caso Guelfi e Ghibellini s'erano messi d'accordo, io fu invitato, e chiamai naturalmente gli attori e le attrici e i compagni e registi che avevo avuto a Roma e facemmo una stagione, che non considero secondaria, almeno nella mia esperienza e forse anche in assoluto per quello che era Firenze. Il debutto avvenne nel '49, appunto mi pare, intorno alla fine di gennaio, primi di febbraio, con un elisabettiano, un dramma di John Ford intitolato “Peccato che fosse una sgualdrina”, dramma fino allora credo mai rappresentato in Italia, credo fosse la mia prima rappresentazione, la prima rappresentazione italiana, quella che ho fatto io. Poi dopo molti anni l'ha fatta a Parigi Luis Visconti, con Alain Delon e Roman Schneider. Io allora avevo come protagonisti, Raoul Grassilli, Fulvia Mammi e un giovane attore preso tra i filo drammatici che vivevano a Firenze. Io ne avevo esaminati molti, perché mi era stato detto giustamente dagli amici fiorentini, “qui già c'è un certo malcontento perché il direttore del Teatro Stabile è stato chiamato da Roma... Se non prendiamo anche qualche elemento fiorentino, è difficile che la vita di questo teatro possa svolgersi con una certa tranquillità...” Il mio assistente era Franco Enriquez, cioè il figlio del maestro Vittorio Gui, e il giovane attore che avevo pescato, in mezzo ai film drammatici era Giorgio Albertazzi. Albertazzi, la Mammi e Raoul Grassilli erano i protagonisti di questo dramma elisabettiano, fino allora, ripeto, vietato dalla censura - anche lì ebbi una certa difficoltà - perché raccontava una storia un po' scabrosa, ma più scabrosa nelle idee che nei fatti. Era la storia di un amore tra fratello e sorella, il marito di questa ragazza, il marito era Albertazzi, il fratello era Grassilli, la ragazza era la Mammi. Il marito di questa ragazza quando veniva a scoprire il legame innaturale dei due fratelli sfidava l'altro, e da lì nascevano tutta una serie di avventure straordinarie, come in tutti gli elisabettiani, che si concludevano al solito nel modo più tragico, con la morte di quasi tutti i protagonisti.

Luciano Lucignani: 1:00:25:44 Mi ricordo che tra i ricordi, diciamo, divertenti, se si vuole, divertenti ma in modo malinconico ahimè, di quel periodo ci fu l'articolo di un giornale, non ricordo ora quale fosse, nemmeno ricordo se fosse un giornale o una rivista, ma ricordo esattamente cosa diceva... Il quale mi accusò di avere inaugurato il Teatro Stabile di Firenze con un “drammaccio” di un regista cinematografico cioè di John Ford. Disse “perché Lucignani è andato a cercare questa storia che poteva benissimo rimanere... Poi una storia ambientata così nel Seicento...” Insomma, perché John Ford? Ecco, questa era l'ignoranza: hanno scambiato il John Ford scrittore elisabettiano per il John Ford regista cinematografico americano. Comunque lo spettacolo ebbe successo. Il mio caro presidente Silvio D'Amico venne da Roma, ne scrisse sul suo giornale, ne parlò alla radio, dopodiché Luciano Salce mise in scena, con gli stessi attori, che io avevo, “George Dandin” di Molière e poi Vito Gandolfi rappresentò “Il mutilato” di Toller. Questo sempre con il gruppo degli attori che io avevo messo insieme, offrendo ai miei compagni le stesse possibilità che avevo avuto io. Con due atti unici, uno di Tennessee Williams, ritratto di Madonna, e uno di Arturo Loria, “Il prigioniero mal consolato” si concluse questa unica stagione del teatro di Firenze.

Luciano Lucignani: 1:00:27:23 Io tornai a Roma, lavorai in giornali e riviste, feci della radio, e, successivamente, nel '52 diressi a Roma Madre Coraggio e i figli di Brecht, devo spiegare perché. Subito dopo la guerra avevo conosciuto, perché era venuto a Roma, un critico americano, forse in quel momento il più famoso, Eric Bentley, col quale ancora sono in buoni rapporti di amicizia, sia pure solo epistolare, perché sono molti anni che non ci vediamo. Bentley era amico di Brecht, lo aveva conosciuto in Germania, e quando venne a Roma mi parlò del lavoro di questo scrittore, che lui aveva visto anche in America. Brecht era stato in esilio a Los Angeles, dove con Charles Laughton aveva messo in scena il “Galileo Galilei”, in un piccolo teatro di Hollywood. E mi disse che se avevo occasione di andare in Germania lui mi avrebbe fatto conoscere questo scrittore. Passò qualche tempo, poi mi mandò addirittura un biglietto dalla Germania dicendo “io sono a Monaco, Brecht sta provando, comincia fra qualche giorno a provare Madre Coraggio. Perché non vieni a vedere le prove?” Allora io partii, andai, mi ricordo benissimo queste cose, ci sono nella memoria dei fatti che sfuggono ogni tanto, che sono, così, un po' annuvolati diciamo, invece questo fatto me lo ricordo con una precisione incredibile, forse perché mi colpiva in modo particolare. Mi ricordo il viaggio, mi ricordo l'arrivo a Monaco in una mattina autunnale, mi ricordo la macchina che mi portò, il taxi che mi portò allo Schiffbau Theater, e poi l'ingresso, così difficile di questo teatro, non capivo qual era l'entrata degli artisti, qual era l'entrata invece del pubblico, finalmente l'incontro con un portiere, nella mia assoluta incapacità di esprimermi in tedesco ma comunque da buon italiano, tra i gesti, qualche parola, francese e italiana e anche tedesca, perché mi ero preso un libretto di quelli che servono per viaggiare, cioè delle frasi già preparate. Insomma riuscì ad arrivare, a questo signore americano che si chiamava Bentley, e dissi c'era un professore americano, lui venne lì, e mi fece entrare, e io entrai nella piccola saletta dove Brecht stava provando “Mutter Courage und ihre Kinder”.

Luciano Lucignani: 1:00:30:02 Mi ricordo ancora l'atmosfera estremamente serena, tranquilla, come di gente che sta veramente in un laboratorio a fare qualche cosa, non c'era nulla dell'atmosfera che io conoscevo dei teatri italiani durante le prove, fatta di silenzi, di improvvise grida invece, di discussioni feroci addirittura con gli attori, di rimproveri sempre a qualche macchinista che sta inchiodando quando non deve inchiodare, a un attore che sta camminando quando non deve camminare, lì tutto sembrava non una disciplina eccessiva, ma sembrava veramente un lavoro fatto con la coscienza di fare un lavoro serio. Le persone aspettavano, si fermavano. Brecht in platea, appoggiato mi ricordo ancora con le braccia così alla ribalta, che chiacchierava con l'attrice che era accucciata sul palcoscenico davanti a lui discutevano su certi movimenti, su certi atteggiamenti, era veramente affascinante. L'unico rumore che sentivo, erano dei click continui di una macchina fotografica perché, come mi spiegò poi Bentley, Brecht aveva il desiderio di fotografare istante per istante le prove e gli spettacoli. Quindi c'era un'addetta, che si spostava da tutte le parti del teatro, dalla galleria, dalla balconata, la platea, saliva fino in alto, si metteva in fondo, e da tutti questi punti di vista non faceva che scattare fotografie, che poi andavano a riempire quei “model-book” o libri-modello che lui creava per ogni spettacolo, dei grandi registri di formato protocollo diciamo, sui quali venivano appiccicate le fotografie di tutto lo spettacolo, scena per scena, dall'inizio fino alla fine. “Scena per scena” intendendo con questa espressione, che ogni uscita di personaggio o ingresso di altro personaggio creava una nuova scena e quindi veniva fotografato. Mi ricordo che vidi le prove, d'allora fino all'andata in scena.

Luciano Lucignani: 1:00:32:07 Negli ultimi giorni avevo conosciuto intanto Brecht, che mi aveva così stretto mollemente la mano, passandosi il sigaro da destra a sinistra, un sigaro spento, un mozzicone Toscano, che lui teneva sempre in bocca. Negli ultimi giorni si sparse la voce, che ci sarebbe stato un attentato, che c'era una bomba messa in teatro. Questo perché? Perché Brecht era tedesco orientale, diciamo, e comunque simpatizzante, perché non era iscritto in quel momento, del Partito Comunista della Germania Est, però lavorava nella Germania Ovest, e a quelli dell'ovest questo dava fastidio, lui si è sempre contraddistinto per questa posizione ambivalente. Viveva a Berlino Est, dove aveva il suo teatro che era il Berliner Ensemble, però lavorava a Berlino Ovest a Monaco e anche a Berlino Ovest, appunto, poi lavorava nella Germania occidentale e aveva la casa editrice in Svizzera, dove andavano, credo, i suoi diritti. Era una maniera di salvaguardare la propria indipendenza, che del resto lui aveva già teorizzato in precedenza, quando la Germania era una sola, ma nazista. Comunque sia, questo per spiegare semplicemente perché si era sparsa la voce che ci sarebbe stato un attentato, una bomba. Il teatro fu invaso dai poliziotti, dai pompieri, dagli artificieri e per 48 ore nessuno di noi poté nemmeno muoversi proprio, perché se si spostava da una poltrona a un'altra bisognava spiegare il motivo per cui l'aveva fatto e per me questo diventava sempre un po' complicato.

Luciano Lucignani: 1:00:33:45 Non c'era nessuna bomba, non accade nulla, e alla sera della prima lo spettacolo filò via liscio dal principio alla fine. Io non sapevo il tedesco, non avevo ancora letto, perché non esisteva la versione italiana ancora, Madre Coraggio e i suoi figli, ma devo dire si capiva perfettamente tutto. Quando lo lessi in italiano, appena uscì pubblicato da Einaudi in quei piccoli volumetti grigi, nella Piccola Biblioteca Einaudi, mi pare, scoprii che tutto quello che c'era scritto, io lo avevo perfettamente capito, cioè sapevo esattamente la trama, le situazioni, i motivi, tutto quanto, le battute in un certo senso. E, la sera della prima, il successo fu incredibile. Non avevo mai visto, fino allora almeno, il pubblico alzarsi e rimanere per circa dieci minuti ad applaudire senza gridare “bravo”, senza fare nulla di quelle manifestazioni di eccessivo calore, che sono tipiche degli spettacoli italiani, ma applaudendo come si applaude un capo di Stato, come si applaude, non so, un personaggio importante. Brecht nella sua divisa pseudo militare, a la cinese, cioè grigia, con l'abbottonatura centrale, colletto alto, pantaloni, tutto quanto di fustagno, si inchinava, così facevano gli attori e naturalmente si vedeva che sprizzavano felicità. Subito dopo lo spettacolo, come nelle migliori consuetudini del teatro di Monaco, andammo tutti quanti in una birreria, e lì attraverso Bentley che mi faceva da interprete, io chiesi a Brecht il permesso di rappresentare Madre Coraggio in Italia. Forse per l'atmosfera, forse perché gli ero simpatico, forse perché Bentley gli aveva parlato bene di me, non lo so, fatto sta che io ottenni questo permesso. Mi disse "sì, sì, va bene, quando è a Roma mi scriva, io le manderò in risposta la mia autorizzazione". Poi prese un volume tedesco, l'edizione di Madre Coraggio e i suoi figli in tedesco, con una bellissima fotografia dello spettacolo in copertina, lo aprì e mi scrisse una dedica, che ancora conservo, “a Luciano Lucignani Mit Kameradschaft”, con cameratismo, con amicizia”.

Luciano Lucignani: 1:00:36:14 Io tornai a Roma, mandai la lettera, seppi dai collaboratori, dalle collaboratrici di Brecht che lui avrebbe desiderato come protagonista Anna Magnani, cosa che a me non pareva giusta, perché conoscevo la Magnani come un'attrice di grande temperamento, ma comunque un'attrice che manifesta il suo temperamento in un determinato contesto e forse non era adattissima a recitare la storia di questa vivandiera del Seicento, che segue gli eserciti imperiali durante la famosa guerra di religione, la guerra dei trent'anni, che segue gli eserciti imperiali vendendo loro tutto quello che serve: dagli stivali, all'acquavite, a un coltello, alla polvere da sparo, a un'arma, e che in questo viaggio drammatico al seguito della guerra perde i suoi tre figli: due ragazzi e una ragazza muta. Alla fine del dramma lei sente gli eserciti che si allontanano, oramai è sola, prende le corde che trascinavano questo carro, se le passa intorno alle braccia e grida addirittura agli eserciti che stanno andando via "Ehi voi aspettatemi, ci sono anch'io, la guerra è dura ma è la sola cosa che mi dà da vivere." Naturalmente in Germania Est, subito fecero delle obiezioni a questo atteggiamento di Brecht. Dissero “Come? Questa donna, dopo tutto quello che gli è successo continua a fare la guerra.” Brecht rispose come una qualunque persona di buon senso: “Lei non ha la coscienza di quello che gli è accaduto, io spero che ce l'abbiano gli spettatori, anche se devo dire sono piuttosto pessimista al riguardo”. Madre Coraggio non aveva altra possibilità per lei, che seguire gli eserciti imperiali, fare il mestiere che faceva, vendere loro gli oggetti di cui avevano bisogno: era una maniera per poter sopravvivere. La guerra, è vero, gli aveva ucciso i suoi tre figli, ma la guerra era anche la sola cosa che le permetteva di continuare a vivere.

Luciano Lucignani: 1:00:38:28 Queste sono le contraddizioni che esistono nella realtà, Brecht, devo dire l'aveva rappresentate molto bene, credo, non perché l'ho fatto io che Madre Coraggio e i suoi figli forse sia il suo dramma meno epico, se si vuole, ma certamente forse il più umano, più bello anche proprio per questa contraddizione che c'è fra l'orrore della guerra e la necessità di sopravvivere mediante essa. Credo sia il dramma più bello che Brecht abbia scritto. Forse Galileo Galilei da un punto di vista ideologico è anche superiore, forse sono altrettanto belli, non so, La madre, tratta dal romanzo di Gor'kij o L'anima buona di Sezuan, e altri drammi che poi sono stati rappresentati, io, ah ecco, soprattutto Puntila e la forsa del suo servo Matti. Io li ho visti quasi tutti, perché dopo Monaco mi spostai a Berlino e andai a vedere tutto quello che Berliner Ensemble rappresentava. Vidi anche una straordinaria edizione del Faust di Goethe, prima e seconda parte, un'esperienza che raccomando a chiunque se ha coraggio, forza, scarsa capacità di addormentarsi eccetera. Perché, questo spettacolo che durava sette ore nell'insieme, aveva un solo intervallo fra la prima e la seconda parte. Un pubblico attento, silenzioso come davanti a una messa, a una funzione religiosa e in qualche modo capii anche la tragedia della Germania, mi ricordo in quel momento. Capii perché tutti i tedeschi in fondo, non dico che avevano seguito Hitler, ma non avevano fatto nulla per opporvisi, perlomeno nella massa. Che poi ci fossero degli scrittori come Thomas Mann o come Brecht, come Furtwängler che se ne fossero andati, che ci fossero altri che avevano magari cospirato, gli stessi generali come Rommel e gli altri avessero tentato di liberarsi di Hitler, questi solo piccoli fatti, nella stragrande maggioranza il popolo tedesco, anche sapendo, quando aveva saputo dei campi di concentramento eccetera, seguì Hitler nella guerra e in tutte le altre imprese.

Luciano Lucignani: 1:00:40:40 Forse perché questo tipo di disciplina era tipico dei tedeschi. Io ricordo che dopo tre ore e mezzo che ero seduto sulla poltrona, proprio nel tentativo di non uscire paralizzato dallo spettacolo mi mossi leggermente su questa sedia che scricchiolò, e non solo ci furono delle grida, dei rumori per dirmi di fare silenzio, ma quasi tutti quelli che mi stavano davanti a me mi si voltarono guardandomi con lo sguardo che se avessero potuto mi avrebbero incenerito insomma. Ecco, questa disciplina eccessiva, questo fatto di non consentire che ci sia la minima possibilità di trasgredire, che questa piccola trasgressione sia considerata forse inevitabile, e magari anche apprezzata, non lo so, era una cosa che almeno in quel momento mi faceva molto effetto, che non fosse... che non toccasse minimamente i tedeschi. Mi faceva molto effetto in quel momento, proprio perché io arrivai in Germania che ancora le tracce della guerra erano molto evidenti. L'hotel Adlon era stato bombardato all'inizio della... di quello dove ora finisce il muro, insomma l'inizio della Unter den Linden, proprio subito dopo la Porta di Brandeburgo, era mezzo distrutto, la cancelleria era un ammasso di macerie. Mi ricordo di aver visto a una fermata d'autobus una donna che faceva la sua piccola merenda con due fettine di pane scuro umido bagnato e una foglia di insalata dentro probabilmente scondita. C'era la miseria, c'era il freddo, non si... nelle trattorie si mangiava quello che si poteva mangiare, ma i teatri erano tutti quanti aperti, le librerie erano piene di libri, e io ne comprai mi pare proprio a decine, tornai in Italia con le valigie che pesavano piene di libri.

Luciano Lucignani: 1:00:42:30 E insomma, la vita culturale aveva una grande evidenza, probabilmente troppa, ecco, pensando a qual era la situazione, pensando anche l'atteggiamento proprio di questo popolo che era uscito da una tragedia che era stata anche in parte la tragedia dell'obbedienza e che non aveva imparato, non dico a disobbedire, ma perlomeno a non obbedire in modo così pedissequo, così totale. Ecco, queste erano un po' le riflessioni che mi distrassero dalla seconda parte del Faust, peraltro rappresentato con grande bellezza. Lo conoscevo, quindi lo potevo grosso modo seguire. Il protagonista era un grande attore tedesco, che in quel caso era anche il regista, si chiamava Wolfgang Langhoff. Al Berliner Ensemble rividi Brecht, conobbi sua moglie, Helene Weigel, altri dei suoi collaboratori e vidi molti dei suoi spettacoli. Vidi Der Hofmeister di Lenz, adattato dallo stesso Brecht, vidi Herr Puntila und sein Knecht Matti, cioè Il signor Puntila e il suo servo Matti, vidi... che cos'altro ancora? Ah, la nuova edizione di Madre Coraggio recitato dalla Weigel, mentre quella che avevo visto a Monaco era recitata da un'altra attrice, da un'attrice forse più giusta, perché era piuttosto grassa, piuttosto... Aveva, era più simile all'idea che mi ero fatto di questa vivandiera, di quanto non fosse la Weigel, che era una donna magra, ossuta, quasi maschile insomma.

Luciano Lucignani: 1:00:44:08 Tornai in Italia, andai a parlare con la Magnani che naturalmente rifiutò - rifiutò probabilmente perché dirigevo io il dramma, perché ne avevo i diritti, quindi sarebbe stato sciocco che non approfittassi della situazione - ma rifiutò credo soprattutto perché gli chiedevo in fondo di fare il ruolo di una donna che doveva avere intorno ai 50 anni. Tant'è vero che a un certo punto con una sincerità, che non era fra le sue qualità, ma che era insopprimibile per il suo modo proprio di esprimersi mi disse "A Lucigna', ma te pare possibile che io faccia 'na madre?" Secondo me non era impossibile, volevo dirgli che non era il mio ideale, ma non glielo dissi, mi limitai a mandare un telegramma a Brecht dicendogli che la Magnani aveva degli altri impegni, che purtroppo avrebbe potuto, ma molto più in là e che io invece avevo fretta di mettere in scena il suo spettacolo. Lo feci con altri attori, la protagonista era Cesarina Gheraldi e insieme c'erano Lorenzo Giovampietro, Mario Milita, Sergio Tofano, che faceva il cappellano, Gaetano Verna che era il cuoco e Franca Maresa, che era la ragazza muta. Era un'esperienza... la mia prima esperienza professionale romana, perché le altre cose erano accadute a Firenze. Esperienza difficile, il teatro era piccolo, per lo spettacolo che volevo fare io, era il Teatro dei Satiri di Roma, i mezzi economici erano modesti, eppure riuscii ad ottenere parecchie cose. Riuscii per esempio a far mettere un girevole sul palcoscenico dei satiri, per poter far camminare il carro di Madre Coraggio facendo andare il girevole alla rovescia in modo da dare l'impressione che questo carro potesse camminare, perché senza girevole avrebbe attraversato in due secondi e mezzo l'intero palcoscenico e sarebbe dovuto uscire. Riuscii ad avere una piccola orchestra nella fossa d'orchestra e lo spettacolo finalmente andò in scena, devo dire con un successo secondo me anche sproporzionato allo sforzo. Grandi articoli, grandi elogi della stampa di sinistra. Mi dispiacque soltanto il fatto che alcuni dei compagni iscritti al partito, che venivano chiedendo, cosa più che lecita diciamo, il biglietto di ingresso gratuito, alla fine se ne andavano un po' “immelanconiti”, qualcuno arrivò addirittura a dirmi "A Lucigna', ma sempre, quando ci riguarda noi, sempre 'sti stracci, sempre la guerra, sempre..." Capii in fondo che nel profondo dell'animo, anche di un operaio o anche perlomeno di un “non ricco”, diciamo, senza chiamarli poveri, forse c'era un altro tipo di ambizione, c'era l'ambizione a passare di classe a diventare più benestante e forse anche a vedere nello spettacolo teatrale qualche cosa di più simile e di più vicino all'illusione, cioè a dire una vita anche più ricca, più bella, più gradevole, uno spettacolo più allegro. Del resto era il tipo di teatro al quale la maggior parte degli italiani era stato abituato fin da allora.

Luciano Lucignani: 1:00:47:41 Comunque sia, quasi due mesi di repliche al Teatro dei Satiri, la partecipazione al Festival di Bologna, consacrarono questa piccola compagnia che ero riuscito a mettere insieme, gli dettero una sua fisionomia e devo dire che era un momento molto felice per il teatro italiano in particolare, perché insieme al mio spettacolo, al Teatro dei Satiri c'era l'Amleto di Gassman e Squarzina al teatro Quirino, c'erano, mi pare, le Carmelitane Scalze di Bernanos, messo in scena da Orazio Costa al Teatro delle Arti, forse c'era anche qualcosa di Visconti all'Eliseo, adesso non lo ricordo, perché era il novembre del '52, l'epoca in cui noi andammo in scena, però si può controllare, si può vedere che cosa c'era allora. Comunque era un momento di grande fervore, e succede sempre così, quando ci sono molti spettacoli buoni, c'è pubblico per tutti gli spettacoli buoni, quando ci sono anche un solo spettacolo cattivo non c'è pubblico nemmeno per quello spettacolo cattivo, il successo chiama il successo e viceversa naturalmente.

Luciano Lucignani: 1:00:48:48 Io non posso farla troppo lunga, quindi non posso raccontare tutte le tappe successive del mio lavoro, che si è svolto diciamo dal '49, l'anno di Firenze appunto, fino al '61, '60-'61. Durante questo periodo sono tornato a lavorare con Gassman, con il quale ho messo in scena Kim, poi altre cose, un'opera lirica a Catania, altri spettacoli tra il più importante dei quali fu quello che concluse il nostro tentativo di teatro popolare, cioè L'Orestiade di Eschilo, messa in scena a Siracusa l'intera trilogia, tre tragedie: Agamennone, Coefore e Eumenidi. Messo in scena tutto quanto nello stesso spettacolo con un'edizione anche abbastanza anticonformista, rispetto perlomeno a quello che allora il dramma antico usava rappresentare nei teatri greci e romani. Questa è una carriera che è durata circa 12 anni, le punte salienti sono forse la Mandragola di Machiavelli, rappresentata al Teatro delle Arti l'anno successivo a Madre Coraggio, uno spettacolo di atti unici fatto all'Arlecchino, una commedia di Eduardo De Filippo, scritta su mio incitamento dallo stesso Eduardo - anche questo è un episodio che meriterebbe una lunga chiacchierata, perché andammo addirittura a lavorare a Parigi - che si chiamava De Pretore Vincenzo, e qualche altra cosa di forse più trascurabile, ah no, non tanto trascurabile, perché devo aggiungere Girotondo, di Schnitzler, fatto al Teatro Parioli, Un amore a Roma di Ercole Patti, fatto ancora al Teatro Parioli, lavoro con attori e attrici fra cui Valeria Moriconi ed altri, che chiamai a debuttare praticamente in teatro.

Luciano Lucignani: 2:00:00:05 Probabilmente incuriosirà che io dica qualche altra cosa su questa mia esperienza del lavoro con Vittorio Gassman e successivamente su quella con Eduardo De Filippo, visto che si tratta di due tra le figure maggiori del teatro contemporaneo in Italia. Il rapporto con Gassman ebbe inizio nel '54, io entrai nella sua compagnia e insieme traducemmo e mettemmo in scena Kim di Dumas nella elaborazione di Sartre. Devo dire a questo proposito che nella prima rappresentazione napoletana di questo spettacolo, che andò in scena al Mercadante, mi sembra nell'autunno del '54 o nella primavera del ’55. Sulle date sono un po' come quel personaggio di Campanile, che conosceva tutte le date, ma non sapeva quelle a cui si riferivano. Quindi, ogni tanto c'è qualche piccolo sbandamento, però insomma, ecco, dev'essere stato intorno a quel periodo perché era la stessa stagione. Accade una cosa strana, dopo la prima rappresentazione, che ebbe un grande successo, il pubblico cercò di salire in palcoscenico, come è tradizione, per congratularsi con l'attore, per vedere gli altri, erano amici, critici, gente di teatro napoletana, e, tra le prime, c'era la madre di Gassman, la signora Gassman che appunto era sempre presente a tutti gli spettacoli del figlio. Viceversa c'era un pompiere anche, non mi ricordo nemmeno come si chiamasse, anzi non era un pompiere, era un sergente dei vigili del fuoco - meglio essere prudenti in queste definizioni - il quale non voleva far entrare il pubblico in palcoscenico, si era messo a braccia aperte davanti alla porta e cercava di impedire appunto l'ingresso. Siccome la madre di Gassman era piuttosto intraprendente cercò di superare questa barriera, e il sergente invece, spingendole una mano sul petto - la madre di Gassman era una signora di 50 anni circa, però, tuttavia sempre una signora, insomma queste cose forse non era giusto farle - la ricacciò indietro. Io ero lì presente e protestai, il sergente dei vigili del fuoco mi disse che era una norma che fintanto che il teatro non era sgomberato, il palcoscenico perlomeno, il pubblico non poteva entrare: potevano lasciar cadere non so, una cicca di sigaretta, qualche cosa, il pericolo di un incendio e così via. Lui, essendo vigile del fuoco aveva l'obbligo di far rispettare questa norma. Io molto irritato e devo dire… devo dire perché è la verità, con un senso di eccessivo disprezzo forse nei confronti di quest'uomo che in fondo faceva il suo dovere, anche se lo faceva male, mi allontanai dicendo "Va bene, questa dev'essere una norma partorita da una mente malata". Il sergente dei vigili del fuoco che faceva il suo dovere, ma non era molto pratico di date, forse meno di me, prese questo insulto al legislatore, diciamo, come un fatto personale, come se avessi detto a lui che era matto. Si infuriò in un modo tale, mi ricordo che aveva il collo completamente rosso, segno indubbio di ira malamente trattenuta, che a un certo punto mi avvicinai e dissi "guardi, se lei non la smette io vado al commissariato qui vicino”, “e io vengo con lei", “benissimo”. Presi il soprabito, non so, l'impermeabile, ero vestito di blu con… come si usa per le prime rappresentazioni, e mi ricordo che uscimmo insieme. Naturalmente, avendo bisticciato - questa è la prima nota comica della cosa - non camminavano vicini, io sul marciapiede, lui sull'altro, ma io guardavo lui perché non sapevo dov'era il commissariato, quindi dicevo “quando lui ci arriva lo vedo anch'io”. E c'era questa cosa di camminare, che era già abbastanza grottesco, insomma, di osservarci a vicenda camminando separatamente. Arrivammo al commissariato, lui entrò, il commissario lo ascoltò per primo, poi mi chiamò, e mi disse… mi guardava, mi ricordo, con un'aria molto drammatica, come se fosse in presenza di un criminale oramai senza più speranza condannato preso "e disse, la faccenda si mette male" Va bene, lo spero bene - io credevo che si mettesse male naturalmente per il sergente dei vigili del fuoco - mentre nella mia ingenuità non avevo capito che si metteva male per me. Ma dissi “perché?” Beh perché, questo qui di fuori, e lo definii con un insulto napoletano, abbastanza volgare, disse che era un certo “sfaccimm”, che è una parola napoletana che vuol dire qualcosa di assimilabile a figlio di buona donna o altre cose, forse anche un pochino più insultante e mi disse anche che era uno che andava fino in fondo, che non tollerava, così… “E allora?” chiesi io, “e allora lei va e le chiede scusa”, “io gli chiedo scusa?”, “ma sì, troviamo la maniera, so che voi artisti…” mi disse il commissario di allora, “usate sempre prendere durante lo spettacolo qualche cosa per tenervi su, non lo so che cosa, forse quelle pasticche che danno euforia oppure bere” - questo tra parentesi era il mio pensiero - "lei dice che ha esagerato con una di queste cose, che quindi si è trovato in una situazione di estrema irritabilità eccetera…”, io lo guardai con gli occhi di fuori, "mi scusi, io per non essere considerato colpevole in una discussione nella quale credo di avere ragione debbo o chiedere scusa a questa persona, non essendoci secondo me la ragione per cui io mi debba scusare, oppure addirittura giustificarmi con una cosa che lei deve considerare un reato, perché se io ho preso della droga, oppure sono in stato di ubriachezza, le faccio presente che sono astemio dal giorno della nascita, che non ho mai bevuto nulla in vita mia, altro che acqua minerale, lei deve deve perseguirmi in qualche maniera, perché sono un essere pericoloso, non solo ma devo anche mentire, perché non è vero, quindi io devo dire una menzogna, devo accusarmi di un reato non commesso, devo chiedere scusa a una persona con la quale ho discusso, pensando di avere ragione… Tutto questo perché io sia lasciato libero, mi rifiuto". Il commissario mi guardò come si guarda uno che non ha capito, come stanno veramente le cose, che crede di vivere una specie di repubblica ideale dove la giustizia sta lì con la sua bilancia e i piccoli pesi, e decide, e mi disse "va bene, aspetti che le faremo sapere qualcosa". Dopo un po’ - intanto io gli avevo spiegato che ero il regista della compagnia Gassman, che era andato… - quando nominai Gassman, lui mi fece "ma chi? Il tenore?” mi chiese. Allora capii che veramente ero in un territorio diverso da quello che io ero abituato a frequentare e che qualunque ulteriore spiegazione sarebbe stata inutile. Poi venne a trovarmi Vittorio con qualcuno della compagnia, mi disse “vediamo quello che possiamo fare”, in realtà credo che non fecero niente, la sera andarono a dormire e un agente mi prese e mi disse "bisogna che stanotte rimane qui". Mi accompagnò giù, nel sottosuolo, nel sottosuolo dove c'era la cosiddetta camera di sicurezza con un letto a due piazze, una bella coperta sopra. La convinzione mia era che fosse proprio un letto, tant'è vero che mi gettai a sederci un po' stanco come ero, anche un po' emozionato, poi c'era tutta la stanchezza dello spettacolo, del lavoro, la tensione che è tipica di una prima. Mi gettai a sedere e per miracolo non mi sono rotto le ossa, perché, cosa tipicamente locale, questo letto era di gesso, la coperta fluttuante era dipinta sopra, ma era un letto finto, insomma era un letto come da teatro, ma un letto da teatro su cui nessuno si deve sedere. L’agente cercò di avvertirmi, ma lo disse mentre già io mi stavo sedendo, quindi mi ricordo di un grande tonfo su questo letto, dove mi alzai tutto dolorante, allora mi portarono una coperta perché potessi riposare la notte. La mattina dopo - io mi svegliai molto presto, mi dava fastidio avere la barba lunga ricordo così - venne un agente, mi sembrava molto allegro, si fregava le mani, diceva “allora adesso ce ne andiamo, eh”. Pensavo fosse il solito plurale maiestatis, si è rivolto a me, una persona rispettabile che loro mandavano via. Uscendo salimmo sopra e vidi che a un certo punto mi disse "Scusi permette" con uno strano apparecchio in mano che erano le manette, quelle fatte come… due manette trattenute da due sbarre di ferro, come un pochino le inferriate che si mettono di fronte a certe finestre, ma dissi "Perché?", “sa per il pubblico, per la gente che c'è fuori”. Prima cosa che mi stupì… “Perché la gente che è fuori, se poi mi vede uscire senza le manette, cosa pensa? Che sono un ladro che scappa, un criminale sfuggito alla giustizia, non so. Se invece mi vede con le manette applaude, è contenta”. Comunque mi misero sopra un furgone, il quale cominciò a percorrere tutta Napoli raccogliendo altre persone da portare in carcere. Anche lì piccole note comiche, perché ogni tanto raccoglievano della gente che stava gridando, urlando, litigando, si stava picchiando con altri… Venivano divisi e portati lì sopra. Una di queste, mi ricordo, era una signora, e siccome era tutto pieno io mi alzai cedendole il posto come se fossi stato su un autobus anche con un piccolo inchino. Questa nemmeno mi guardò, era ancora tutta irritata, aveva i capelli dritti, si vede che si erano presi a capelli con qualcun altro. Fatto sta che alla fine, mano a mano scendevano nei vari commissariati, l'unico che arrivò fino in fondo fu io. Quando scendemmo vidi uno stradone di periferia enorme, largo, silenzioso e un fabbricato tetro davanti a me, con un grande portone. Dissi “dove siamo?” , “E questa è Poggioreale” mi disse l'agente che mi dava tutte le informazioni. Allora capii che era non solo il carcere, ma il carcere nel quale… Che è anche un ergastolo, insomma, voglio dire, mi sembrava un po' eccessivo insomma ecco. “Ma guardi che io”, “sì sì sì sì va bene, formalità, formalità”. Entrai lì dentro, tra le varie formalità ci fu quella di mettermi contro il muro e fotografarmi di faccia e di profilo, di sporcarmi la mano destra e sinistra d'inchiostro perché lasciassi le impronte digitali, poi quella di lasciare tutti i miei averi in una busta di carta gialla che venne chiusa, dovetti levarmi i lacci delle scarpe, la cinta dei pantaloni, avevo i pantaloni un pochino larghi, ogni tanto me li dovevo tirare su, la cravatta eccetera, in questo abbigliamento da persona che usciva allora dal bagno fui introdotto nel carcere. Devo dire a questo punto che io mi divertivo moltissimo, perché avevo visto molte volte scene cinematografiche in carcere, ma da dentro non li avevo mai visti e siccome la curiosità è sempre stata una delle molle che mi hanno spinto, l'idea di vedere questo carcere da vicino mi faceva molto piacere. Era proprio come nei film, ecco. En grande corridoio centrale, sopra un altro corridoio, dove c'erano due poliziotti armati con il mitra che controllavano la parte inferiore, ce n'era uno che passava contro le inferriate facendo suonare, risuonare il suo bastone contro tutte le sbarre. Finalmente mi portarono davanti a una porta, una cella, aprirono. Poi venne uno che mi dette tre piccole ciotole di alluminio molto battute, acciaccate e un pochino una dentro l'altra. Mi disse "guardi una le serve per fare i suoi bisogni, un'altra per lavarsi e una per bere”. “Beh” dissi io, le presi, e lui aggiunse "stia attento a non confonderle naturalmente, per evitare spiacevoli incidenti...". Mi misi sul letto, una coperta su questa brandina e cominciai a riflettere ai casi miei. Poco dopo entrava un altro, che misero nella mia stessa cella e nel pomeriggio una terza persona. Ci scambiammo appena un saluto. Seppi così da loro che uno era stato preso a Mergellina dopo una sparatoria, perché era uno che lavorava con la tratta delle bianche, insomma, che si occupava dello sfruttamento della prostituzione e l'altro era un noto scippatore arrestato da poco. I due si conoscevano, ricordavano i tempi belli durante il bombardamento del '43 e si ricordavano altre cose del genere. Mi chiesero perché ero lì, io spiegai quello che era successo, “vabbè insulto a pubblico ufficiale, fesserie”, da quel momento decaddi nella loro stima, insomma. Non ero nulla di…, non ero un soggetto curioso. Il giorno dopo venne un avvocato e passò ancora qualche ora e poi uscì, di nuovo c'è l'impressione così di essere il protagonista di un film, un film importante perché mi ricordo questo enorme portone che dovevano aprire in due perché non era possibile far scivolare queste grandi porte pesanti con una sola persona, lo stradone desolato, triste, squallido come tutte le strade che sono fuori dalle prigioni, e in fondo, dall'altra parte, ferma, l'automobile di Anna Proclemer, dell'attrice Anna Proclemer, che era venuta a prendermi. La sera tornai in teatro, seppi che erano usciti dei giornali soprattutto quelli del pomeriggio, mi pare il Roma, La Voce di Napoli, non so, il Roma certamente, l'altro era il Mattino, forse sì, con i titoli a otto colonne, in cui si diceva "Arrestato il regista di Gassman” e Vittorio, che è sempre molto sensibile alla notorietà altrui, mi disse "adesso direi che sia il caso di non fare troppo rumore su questa faccenda, cerchiamo di non parlarne”, e la cosa finì così, io fui denunciato, un anno dopo ci fu la causa, fui condannato a sei mesi con la condizionale. Questo era il piccolo episodio.

Luciano Lucignani: 2:00:14:53 La collaborazione con Vittorio invece fu molto piacevole, devo dire, perché eravamo molto affiatati, andavamo d'accordo, condividevamo le stesse idee. Abbiamo fatto insieme questo Kim. Poi io entrai nella compagnia del teatro popolare, di cui lui era direttore, e io vice direttore artistico. In questa compagnia del teatro popolare io tenevo, fra l'altro, dirigevo il Teatro Studio, che era una specie di piccola organizzazione di lezioni agli attori, discussioni su certi problemi della messinscena, sulla storia della regia teatrale, della recitazione, con l'intervento di parecchie persone che venivano a tenere conversazioni, dibattiti - mi ricordo Gerardo Guerrieri, mi ricordo Fedele D'Amico, mi ricordo Luigi Piccinato, l'architetto quello che ha ricostruito il Teatro Eliseo a Roma - insomma, parecchie di queste altre persone. Come vice direttore artistico di questo teatro, insieme a Vittorio poi misi in scena l'ultimo spettacolo, per lo meno della stagione alla quale avevo partecipato io, che era l'Orestiade, come ho detto, di Eschilo, a Siracusa. L'Orestiade di Eschilo precedette di poco il lavoro su Un marziano a Roma di Ennio Flaiano.

Luciano Lucignani: 2:00:16:23 Anche il rapporto con Flaiano, sia legato al teatro popolare che a me stesso, è un rapporto di una qualche curiosità, perché io avevo avuto un'esperienza precedente, all'epoca di quello spettacolo di atti unici fatti all’Arlecchino che ho citato poc'anzi. Questo spettacolo di atti unici si intitolava “Tutto il mondo ride” ed era composto di un atto unico di Čechov, “L'orso”, uno di Labiche, uno di Ionesco, un altro atto unico un certo D’Hervilliez, e poi un pezzo di Feideau, che… mai fatto credo perlomeno, mai fatto in tempi recenti a Roma, che era Non andartene in giro tutta nuda e la cui protagonista ha dato il titolo della cosa non poteva che essere Franca Rame, che ebbe un successo molto personale. Attori in quella situazione lì anche abbastanza importanti, perché c'erano Valeria Moriconi, quasi al suo debutto, c'erano Carlo Hinterman, Bonagura, Gianni Bonagura, un'altro attore si chiama Gianni, e non mi ricordo adesso, un attore sardo, famoso perché è sempre stato l'antagonista perfino di Villaggio di, non mi ricordo il cognome in questo momento, vabbè, poi se mi verrà in mente lo dirò, è un piccolo lapsus. Comunque uno spettacolo.

Intervistatore: 2:00:17:57 Gianni Agus?

Luciano Lucignani: 2:00:17:58 Gianni Agus, esattamente, sì. Era uno spettacolo abbastanza piacevole insomma devo dire. A un certo punto il direttore di questo teatro che era Carmelo Zambardino, attuale direttore del Sistina a Roma, mi disse "però non c'è nessun italiano" e allora cominciai a cercare, quando lo stava ancora organizzando, un atto unico italiano, che fosse vicino al clima così di umorismo un po' intellettualistico anche che connotava gli altri atti unici, e Carlo Mazzarella mi ricordo, mi disse di leggere un atto unico di Ennio Flaiano pubblicato sul mondo. L'atto unico si intitolava, dunque, “La donna nell'armadio”. Lo lessi e lo trovai perfetto proprio per noi, era la storia di un poliziotto che va a indagare in casa di un poeta, lo sottopone a un lungo interrogatorio per un crimine che lui non ha compiuto e che gli dimostra che non ha compiuto, perché nella stessa ora stava ammazzando una ragazza il cui cadavere è nell'armadio, glielo fa vedere e il poliziotto dice allora “lei è innocente, grazie arrivederci, mi scusi tanto” e se ne andava. Quello che era divertente, era naturalmente come si arrivava a questa situazione, allora Ionesco, Beckett, Adamov, Genet, tutta questa avanguardia francese era molto nell'orecchio, e così, del pubblico italiano, e a un certo punto io decisi di sostituire Ionesco con Flaiano. Si equivalevano, secondo me, anzi, forse Flaiano era anche più divertente e anche più acuto in quello che metteva in scena. Gli chiesi l'autorizzazione, lui nicchiò un pochino, poi me la concesse. Dopodiché scoprii il carattere di Flaiano, che era quello di una volubilità estrema. Mi aveva concesso l'autorizzazione diciamo la domenica, che ero andato a trovarlo a casa, il martedì gli mandai due righe, perché la cosa fosse formalizzata, il direttore del teatro aveva bisogno di un pezzo di carta, come si dice, da portare alla società degli autori e Flaiano si rifiutò di firmarla. Non solo, ma il giorno dopo mi arrivò una lettera in cui diceva “guarda gli attori sono bravissimi, sono sicuro che tu farai un eccellente spettacolo, a me sembra che la cosa che ho scritto sia un'assoluta idiozia, ti pregherei di non farla, mi fai proprio un grande dolore, grazie scusami, ciao, arrivederci”. Stavamo naturalmente nelle peste, perché ormai avevamo già cominciato le prove, gli attori erano stati scelti eccetera. Allora andai di nuovo a trovare Flaiano. Gli spiegai che invece “non è vero, l'atto unico è molto bello” che i nostri attori lo avrebbero recitato al meglio ma che comunque nulla di quello che noi avremmo voluto fare sarebbe stato all'altezza di quello che lui aveva scritto. Non erano [incensamenti], lo pensavo, era un bellissimo atto unico, scritto sulla vena di quel gusto paradossale che Flaiano ha sempre avuto, soprattutto nelle cose brevi, perché secondo me lui invece non era adatto alle lunghe distanze, ma comunque questo è una cosa che non dice nulla contro, contro di lui. Ci sono scrittori come Maupassant per esempio come Čechov, grandissimi nei racconti, e più deboli nei romanzi, per esempio Čechov tanto è vero ne ha scritto credo uno solo, Caccia Tragica, che poi è un lunghissimo racconto, più che un romanzo. Comunque sia Flaiano si rabbonì, accettò. “Mi va bene, insomma fatelo, che non vi voglio mettere in difficoltà”. È anche stato molto rinfrancato da quello che io gli avevo detto. Noi ripigliamo le prove, passano due, tre giorni e arriva un telegramma: “ti riterrò personalmente responsabile di qualunque cosa, ti prego di smettere, mandate via le prove, pago io i danni, quello che volete” eccetera. Quindi altra… “Vieni a vedere lo spettacolo, vieni a vedere le prove, forse ti convinci”. Lui venne a vedere le prove, si divertii come se la cosa fosse stata scritta da un altro, applaudii, salì in palcoscenico e disse "ragazzi miei, che vi devo dire, siete talmente bravi che dirvi di no sarebbe un peccato”. Questo fu il nostro viatico e arrivammo alla prima rappresentazione. Lui venne alla prima rappresentazione, il suo atto unico era all'inizio del secondo tempo, lui rimase tutto il primo tempo. All'inizio del secondo tempo - il Teatro Arlecchino, che ora si chiama Flaiano in onore suo, è talmente piccolo che basta stare in palcoscenico e guardare un momento attraverso il sipario e quello che succede in platea si vede - io vidi che Flaiano se la squagliava, per dirla in espressione forse un po’ dialettale ma comunque efficace. Dissi “Flaiano guardate che se ne va”, avvertii gli altri. Siccome c'era presente anche Mazzarella, dicemmo “Carlo vedi se ti riesce di riportarlo in teatro” ma Flaiano si era allontanato già da un quarto d'ora. Mazzarella lo andò a cercare in giro, lo ripescò nientepopodimeno alla stazione Termini, che stava lì che passeggiava avanti e indietro nervoso, fumando, anche lui sigarette o sigari toscani, lo prese, presero un taxi, tornarono in teatro, mentre noi stavamo già recitando, ché avevamo cercato di tenere l'intervallo il più lungo possibile - stavamo già recitando il suo atto unico - che finì con una frenesia di applausi. Lui salì in palcoscenico, venne a ringraziare, piangeva, era felicissimo, e mi ricordo che da quel momento la nostra amicizia fu straordinariamente rinsaldata.

Luciano Lucignani: 2:00:23:30 Passai degli anni e un giorno Vittorio mi dice “Io vorrei fare una cosa italiana, che ne dici se chiediamo a Flaiano di adattare quel suo famoso racconto, Un marziano a Roma?”. Io gli raccontai quello che mi era successo, malgrado tutto, io sono sempre del parere che è meglio perseverare nei vizi, quindi una volta che è andata male o perlomeno in modo difficoltoso ma con una buona conclusione, continuiamo. Andammo a trovare Flaiano, gli dicemmo questa cosa insieme e lui, lì per lì, come sempre succedeva, molto entusiasta: “sì, viene benissimo, si può fare una cosa con la musica, una specie di commedia musicale… Vittorio tu nel marziano sei perfetto, con una tuta grigia d'amianto così, bello, questa persona che cammina per via Veneto, che fa voltare tutte le ragazze… Sì, sì, mi pare un'idea straordinaria, adesso ci provo”. “Quando ci fai sapere qualche cosa?” gli chiedemmo. “Ma, è una questione di quindici giorni, venti giorni. Fino ad una quindicina, venti giorni”. Noi rimanemmo buoni, ma Flaiano non si fece vivo, passò un mese e Flaiano non s'era ancora fatto io, passò un altro mezzo mese, e lui continuava a tacere, a un certo punto gli facemmo delle telefonate e non lo trovavamo, ora era sempre fuori casa, ora era a Cinecittà, un'altra volta era da Ponti, un'altra volta era con Fellini. Cominciammo a pensare che forse c'era qualche cosa di marcio, se non in Danimarca, perlomeno in casa di Flaiano, e una mattina decidemmo di andarlo a trovare. Per essere sicuri di trovarlo in casa mi disse Vittorio “andiamo lì alle otto di mattina, non credo che a quell'ora sia dal Ponti, Cinecittà o d'altra parti.” Arrivammo lì alle 8, suonammo, non ci apriva nessuno, suonammo ancora, poi picchiammo, finalmente sentimmo la voce di Flaiano, che domandava, molto insonnolita e impastata “chi è?” e noi dicemmo “Gassman e Lucignani”. Lui venne ad aprire, con il pigiama ancora, con una vestaglia che aveva indossato sopra, senza occhiali, e mi disse “Mamma mia, siete come quelli che vanno per le case a vendere le enciclopedie”, questa fu la maniera con cui ci salutò, che arrivano a quell'ora presto per trovare il cliente indifeso, alzato a allora dal letto, pronto a qualunque cosa, pur di cacciare via l'intruso. Gli parlammo del Marziano a Roma, lui ci ascoltò, ci offrì un caffè, a un certo punto ci fece vedere un taccuino, un taccuino di quelli sui quali si tengono gli indirizzi, i numeri di telefono. Mi disse “questo è il diario del Marziano” ed era tutto riempito di pensieri, di cose. Noi dicemmo “vabbe’ ma col diario che ci facciamo, la commedia?”. “La commedia è andata un po' più lenta”, e ci mostrò un foglio, due mi pare fossero, perché uno era il frontespizio. Nel primo c'era scritto “Ennio Flaiano, Un marziano a Roma, commedia in tre atti”, “1960” in fondo. Lui usava della carta gialla per le commedie, perché usava la carta rosa per gli articoli del mondo, la carta azzurra per quelli che dedicava ai giornali, la carta bianca per le cose che scriveva per sè, insomma per non fare confusione, anche perché era un po' civettuolo in queste cose. Sul secondo foglio, sempre di carta gialla, c'era scritto “Atto primo, scena prima”. Basta, Un marziano a Roma finiva lì. Disse, è andato un po' lento, finora più che “Atto primo, scena prima” non sono riuscito a scrivere. Caro Ennio, bisogna che tu lo fai. Ennio la scrisse, e, puntualissimo ce lo mandò a Siracusa mentre noi stavamo rappresentando L’Orestiade, e mi ricordo ancora che siamo tornati a Roma in una Topolino, una Cinquecento, guidata da Franco Giacobini, piena di bagagli e nella quale Cinquecento insieme a Giacobini, c'eravamo Gassman ed io. Se ci penso, alla sola idea di mettere tre persone di cui uno come Gassman, abbastanza grosso, qualche valigia ed un paio di borse, che era tutto quello che noi avevamo, dentro una Cinquecento, mi pare un miracolo. Comunque da Siracusa, in questo modo arrivammo fino a Roma e passammo la notte con una lampada tascabile, tenuta in mano di chi fra di noi leggeva, leggendo il Marziano a Roma. Euforici, arrivammo a Roma la mattina presto, andammo a prendere i nostri cappuccini con le “bombe” che sono una delle cerimonie tradizionali, perlomeno della gente di teatro, e decidemmo che finalmente avevamo l'asso nella manica, il Marziano a Roma sarebbe stato rappresentato. Andò un po’ meno facilmente di come ci aspettavamo, ma andò. Vittorio lo mise in prova, vennero a Milano, al Lirico, dove recitavamo, teatro quanto mai inadatto a una cosa tutta sussurrata, detta, fatta di piccole frasi, di piccoli stati d'animo, tutta crepuscolare così. E aveva costruito una scena che sembrava Roma, fatta da Mario Chiari, con via Veneto, il Pincio, le altre cose. Stavamo quasi alla prova generale, Flaiano era molto contento, era accompagnato da due suoi cari amici, Vincenzo Talarico e Sandro De Feo, che erano anche molto amici miei e di Vittorio. Una serata quella della prova generale molto euforica, la sera dopo c'è la prima. Ero un po' preoccupato, devo dire, perché mi pareva che qualche cosa non sarebbe stata afferrata, poi a Milano, fare una cosa intitolata Un marziano a Roma, i milanesi sono forse, come i Romani, forse, come qualunque altro pubblico un tantino provinciali, si interessano alle cose che riguardano loro direttamente. Fatto sta che cominciammo ad andare in scena e, alle prime battute, alle prime canzoncine che c'erano in mezzo - la musica era di Guido Turchi - il pubblico comincia a rumoreggiare. Flaiano, che era di un'ingenuità, se si vuole, perfino superiore alla mia, sentiva questi mormorii, queste cose e li scambiava per consensi che non erano… che non potevano essere trattenuti. Mi venne in quinta, da me, che dovevo entrare – io fra l'altro recitavo in quello spettacolo, facevo una parte che era, diciamo, l'imitazione un intellettuale che sarebbe stato Sandro De Feo, parte molto rischiosa, anche, come dirò fra qualche secondo - comunque venne in quinta da me che ero pronto per entrare in scena e mi disse “mi pare che teniamo il gatto per la coda”. Era convinto. Secondo me tenevamo qualche cosa per la coda ma era una tigre, non un gatto come di lì a poco infatti si dimostrò… Già avevano cominciato a rumoreggiare, io dovevo entrare in scena in una scena che rappresentava un salotto di intellettuali che hanno invitato il marziano e lo prendono in giro sfottendolo, domandandogli delle cose con quell'aria di snobismo, di superficialità, di prendere in giro sempre tutto il mondo che è tipica, almeno secondo Flaiano, in questa scena qui, di questi intellettuali. Avevo una…, dovevo dire una battuta, che era quella che precedeva la mia uscita di scena che diceva esattamente così - la dovevo dire a Vittorio che mi veniva incontro domandandomi il perché della cosa -, io dovevo dire esattamente “Be’ tutto questo mi è venuto a noia, sapete che vi dico? Adesso mi alzo e me ne vado”. Dato i rumori che sentivo in platea, mi pareva che una battuta di questo genere avrebbe… Era pericolosa perlomeno, e allora cercavo di fare il possibile per attirare l'attenzione di Gassman in scena e non dirla. Ma lui, che quando comincia a recitare diventa una locomotiva, ed è pronto a spazzare qualunque ostacolo incontri sulle sue rotaie, vedeva che io non dicevo quello che dovevo dire, che anzi mi alzavo un po' titubante, non sapendo se dirla o non dirla, mi venne vicino e schizzandomi così, della saliva addirittura in volto, mi guardò dicendo "ma lei perché si alza?” - mi dava del lei come personaggio – “lei perché si alza, che cosa vuole fare? Me lo dica, mi dica cosa vuole fare” perché vedeva che io esitavo. Io a un certo punto, messo alle strette dissi "be’, la figura di essere uno che si dimentica le battute non la voglio fare”. “Dato che lo vuole sapere, le dirò una cosa, che tutto questo mi è venuto profondamente a noia, e che io adesso me ne vado”. Si sentì un boato, l'accordo della totalità dei duemila spettatori, che stavano al Lirico con la mia battuta, cioè col fatto che la cosa che stavano ascoltando fosse noiosa e che fosse il caso di andarsene, fu totale. Vittorio mi guardò un po' smarrito, perché capì forse, con un attimo di ritardo a che cosa era dovuta la mia situazione, io uscì e Flaiano questa volta finalmente era un po' imbarazzato. Lo spettacolo finì tra urla, fischi e cose di ogni genere. Però, un po' prima della fine, al penultimo quadro, uno di noi, o forse alla fine, non ricordo, può darsi fosse la fine, forse io stesso, su indicazione di Vittorio, di Flaiano stesso, uscii fuori e dissi, "lo spettacolo che stiamo rappresentando non ha raccolto, mi pare, il consenso, questo è più che spiegabile, non voglio dire che noi abbiamo ragione e voi torto o che avete voi ragione e noi torto, vi propongo alla fine dello spettacolo di discuterne”. Non ci furono applausi, non ci furono fischi, però quando il sipario cadde sull'ultimo atto, l'ultimo quadro, la gente rimase in platea, si misero delle sedie in ribalta, ci sedemmo Gassman, Flaiano, io, qualcuno degli attori, Giacobini, Dal Fabbro, Bonagura e la gente cominciò a fare delle domande, ma erano domande insultanti: “perché avete fatto questa cosa…, non si capisce niente...”. Era uscito nel frattempo il dramma, la commedia pubblicata da Einaudi, ne i Quaderni del teatro popolare che dirigevamo con Gassman e con Luciano Codignola e, Flaiano a un certo punto si alzò un ragazzo, uno studente venne nel corridoio centrale e disse “guardi, io non ho capito assolutamente niente”. Flaiano che aveva in mano questo volume disse, "senta, qui c'è la commedia stampata, ci sono giudizi dei miei amici scrittori, critici eccetera, se non ha capito la legga, poi ne riparliamo”. Lo studente lo guardò, avanzò lungo il corridoio, venne fino a due o tre metri dalla ribalta come sempre con Flaiano, con il volume così, poi disse “no, non lo voglio, non lo voglio nemmeno leggere”, si voltò e se ne andò. Da quel giorno, i teatri nei quali noi dovevamo andare fuori Milano ci mandarono telegrammi dicendo “la rappresentazione del marziano a Roma è confermata purché seguita da dibattito”. Lo spettacolo fu un fallimento, secondo quello che si ritiene normale, giudicato male dalla critica, dissero tutti che Flaiano era troppo debole per affrontare uno spettacolo messo in scena in quel modo, che non aveva il fiato giusto, forse, questa è la soluzione più giusta per sostenere tre atti eccetera. Però fu un fiasco solo per questo punto di vista perché il teatro era pieno, la gente era attratta da questo scandalo, voleva sentire che cosa succedeva. Seguiva il dibattito e noi lo facemmo a Milano, a Torino a Genova, e continuammo a fare dibattiti fintanto che recitammo un marziano a Roma, e poi ripubblicato da Einaudi, come si sa, in tutte le edizioni di tutto il teatro di Ennio Flaiano. La critica aveva assunto questo atteggiamento, perfino Eligio Possenti, che in genere era molto gentile nei confronti di Vittorio, di cui conosceva l'autorità e che anzi aveva esagerato secondo me in gentilezza perché per esempio, quando noi recitammo a Milano, Edipo Re, Eligio Possenti, appunto, critico del Corriere della Sera, ma sordo, secondo me, a ragioni un pochino di sensibilità, di intelligenza e di gusto, fece la sua prima recensione dicendo che lo spettacolo era bellissimo, perché Gassman aveva recitato non solo Edipo Re, ma anche il complesso di Edipo, che secondo lui era una cosa che Sofocle aveva messo già nella tragedia, dicendo “adesso io ci metto questa storia qui poi verrà uno che si chiamerà Nietzsche che lo spiegherà, Freud eccetera, che ve lo spiegheranno e insomma i posteri mi daranno la gloria che mi è dovuta”. Quando recitammo Kim, lo stesso Possenti, sempre per essere molto gentile nei confronti di Vittorio, volle fare però una piccola osservazione e disse, che il Kim era stato straordinario, perché anche se Vittorio Gassman aveva avuto una recitazione più intellettuale che cardiaca - io mi ricordo di aver letto questa critica in automobile, mentre ero con Vittorio e per poco non siamo andati fuori strada e forse io non sarei oggi qui a raccontare questa cosa, perché le risate che Vittorio fece quando lesse “cardiaca”, che voleva dire che era un intellettuale, ma non di cuore, solo che aveva usato il termine della malattia, un termine patologico, non aveva detto una recitazione più intellettuale che sentimentale o di cuore, lui aveva usato “cardiaca”. - Possenti mi è sempre stato simpatico per questa sua debolezza straordinaria che aveva, la scarsa conoscenza della grammatica, della lingua italiana, del dizionario, che in una persona qualsiasi non fanno effetto, ma che, del critico del Corriere della Sera, cioè del massimo giornale italiano, acquistano un rilievo che è impossibile non ignorare. Per esempio, nella prefazione alle commedie di Renato Simoni, non alle commedie, alle cronache teatrali di Renato Simoni, sempre per questa mania che lui aveva di tessere degli elogi sproporzionati, rispetto alle figure che voleva così omaggiare, innanzitutto quando Simoni morì lui fece un articolo che concludeva con le parole [della scomparsa] “in definitiva la scomparsa di Renato Simoni è stata accolta in tutta Italia dall'unanime consenso”. Lui voleva, come è chiaro, dire che il cordoglio era stato unanime e che tutti erano, consentivano al dolore, però, insomma, certo, sembrava che tutti quanti dicessero “oh, finalmente, ce lo siamo levato dalle scatole”, cosa che non era vera. Poi, nella prefazione a queste cronache, elogiò Simoni dicendo che era bravissimo e che, contrariamente a tanti altri critici italiani, non usava montare a cavallo per dire quello che pensava di uno spettacolo. “Montare a cavallo” voleva dire per lui, questa piccola metafora – ecco, un'altra delle sue qualità era che adoperava delle metafore di cui non riusciva più a liberarsi, non sapeva dove buttarle, si vedeva che gli scottavano fra le mani e che non... - questa metafora, dicevo, lui la risolveva così dicendo “non è mai salito a cavallo per dire quello che pensava degli spettacoli. Al contrario di tanti suoi colleghi, i quali non fanno che cavalcare i cavalli con grandi pennacchi così” eccetera, “Simone è rimasto pedone fra i pedoni”. Ora, tradotto in questi termini, certo la metafora diventava ridicola, ma io mi domando, certe volte ho il dubbio, era veramente Possenti uno che scriveva commettendo degli errori o era un umorista dello stile di Campanile, non so, di questi altri, che nascondeva per pudore, forse, per eccessiva modestia le sue doti ironiche sotto l'aspetto di errori di uso della lingua italiana. Vabbè, questa era una piccola parentesi, ma credo che non che non disdica in un racconto di questo genere, perché noi ci siamo occupati a lungo, Gassman ed io, di questo Possenti, come di un caso nella storia della critica italiana.

Luciano Lucignani: 2:00:40:00 Con Vittorio abbiamo fatto poi l'ultima nostra impresa in comune - a parte il teatro Tenda, le altre cose recenti, cioè i sette giorni all'asta, queste cose, così, sporadiche di questi ultimi anni - abbiamo messo in scena insieme, tradotto e messo in scena, Irma la dolce, una commedia musicale di Breffort che ebbe uno straordinario successo, devo dire, proprio grazie alla presenza di Anna Maria Ferrero, nel ruolo della protagonista, di Alberto Bonucci, nel ruolo di questo piccolo ladro che è anche lo sfruttatore di prostitute, ma in una maniera del tutto idilliaca, gentile, veramente piena di gusto. Lo spettacolo, che fece un grande successo e che durò per quasi una stagione e mezzo, andò in tutta Italia. Al termine di questa cosa io mi ricordo che misi in scena appunto Girotondo di Schnitzler al Teatro Parioli, continuando a inaugurare i teatri insomma, perché era già il terzo, mi pare che inauguravo: il Teatro Parioli, il Teatro dei Satiri, il Teatro… quello vicino a Fontana di Trevi, Teatro dei Servi, dove avevo fatto la commedia di De Filippo, e poi passai a fare il cinematografo, perché volevo provarmi in un'altra attività.

Luciano Lucignani: 2:00:41:30 Per quello che riguarda De Filippo, bisogna che da questo anno che è il '60, '61, '62 - il mio primo film è del ’62 - bisogna che torno un pochino indietro di 4 o 5 anni per spiegare come avvenne questa cosa di questa collaborazione con Eduardo De Filippo. La cosa nacque così. Due attori, Achille Milo e Valeria Moriconi, mi chiedevano continuamente di fare qualche cosa, di trovare un testo che andasse bene a tutti e due, perché volevano mettersi in proprio a recitare una commedia e a me era capitato in quei giorni, per una comunicazione che dovevo fare a un convegno scientifico ad Arras in Francia, di leggere tutta l'opera di Eduardo, comprese le poesie. E trovai che c'era un poemetto intitolato “Vincenzo De Pretore” che era praticamente una commedia già bella e scritta, con i personaggi, la vicenda, la storia di questo ladruncolo napoletano, il quale ha una fidanzatina e, mentre ruba delle piccole cose, è ferito dalla polizia, va in paradiso e descrive il paradiso, il Padreterno, i santi e le altre cose ad immagine e somiglianza dei personaggi napoletani che lui conosceva. Quindi sono, un santo è come il tabaccaio dal quale lui andava a comprare le sigarette, la Madonna è una signora che somiglia alla portinaia e così via. Era praticamente, ripeto, scritta. Andai, telefonai a De Filippo che non conoscevo ancora, lui fu molto gentile mi disse "vieni a trovarmi". Abitava in una villa sull'Appia Antica e Luca De Filippo aveva 12-13 anni, credo, 10-11 non so, insomma era un bambino. Andai da lui con mia moglie, gli esposi il problema, e lui mi disse "sì, effettivamente, certo si potrebbe fare, è molto carina la cosa, ah bene i due attori sarebbero anche adatti, vediamo un po'”. Passarono 24 ore o 48, non mi ricordo, mi telefonò a casa, mi disse "guarda Luciano che questa cosa non si può fare purtroppo". "Perché che difficoltà c'è?". "Eh c'è la difficoltà che io devo andare a Parigi a mettere in scena questi Fantasmi in edizione francese, mi è arrivato il telegramma, la compagnia è pronta e di qui alla fine del mese devo partire, come faccio a scrivere questa cosa? Tutto quello che posso è fare vedere se mi riesce di scrivere qualche cosa a Parigi”. “Pazienza”, dissi io, vediamo un po'. Informai i miei due attori, addolorati e niente, considerammo la cosa chiusa. Passarono altri tre-quattro giorni e mi telefonò Eduardo De Filippo, "senti Lucia’ forse la cosa si può fare, che fai tu a Roma adesso?". "Non lo so, sto cercando di fare qualche altra cosa". "Verresti con me a Parigi?". "Certo che vengo con te a Parigi, a fare che?". "Per scrivere la commedia". "Ah, benissimo …”, dissi “… e nello stesso tempo mi dai una mano a mettere in scena l'edizione francese di questi fantasmi al Vieux colombier.

Luciano Lucignani: 2:00:44:23 Partimmo insieme per Parigi, felici e contenti, e cominciammo a lavorare, devo dire, molto bene. La mattina lavoravamo a scrivere la commedia, il pomeriggio alle prove con gli attori del Vieux colombier. C'erano Rosy Varte, Henri Guisoll, Giosette Harmina. Tutti non giovanissimi, ma addirittura entusiasti di Eduardo in un atteggiamento di tale riverenza che per molto tempo la difficoltà fu quella di togliergli solamente questa riverenza, insomma, per poterli far recitare alla loro maniera. La scrittura della commedia si svolgeva in questo modo - io conservo ancora alcune paginette della carta intestata dell'albergo, che era l'hotel Lotti, vicino al centro proprio di Parigi, lungo Senna, la casa d'albergo, nella quale scrivevo a macchina questa cosa -, la faccenda si svolgeva in questo modo: la mattina verso le 9 mi telefonava Eduardo in camera dicendo "se sei sveglio puoi venire" io arrivavo nella camera sua, c'era questo grande letto, lui che era ancora a letto, grande letto pieno di giornali, di libri, di grandi vassoi con caffè, cose, eccetera, lui aveva fatto colazione, mi offriva il rituale caffè, così, pseudo-napoletano, che riuscivano a fare in questo albergo, che era comunque condotto da un italiano, e poi cominciavamo a lavorare. Io c’avevo un quadernetto dove prendevo gli appunti e poi in camera mia, quando avevo tempo, battevo a macchina quello che ci eravamo detti. E io mi ricordo la maniera sua straordinaria di lavorare, mi chiudeva gli occhi come se si fosse assopito e vedeva: “allora dunque, la scena è così, una piccola stanzetta, c'è un letto da una parte, le persiane sono chiuse, poca luce, questa è l'inizio, di De Pretore. De Pretore sta dormendo, si sente la cameriera che bussa alla porta, lui: che volete?” e io intanto andavo avanti. Ritornava ogni tanto indietro ma faceva pochissime correzioni, proprio non c'era… “Ah, ecco c'è Minuccia che viene, quella che lava le bottiglie, le cose…”. La cosa procedeva… Io andavo, ogni tanto discutevamo, “forse sarebbe meglio dire così”, “no, vabbè sì”, qualcosa accettava, qualche cosa…

Luciano Lucignani: 2:00:46:50 Io non mi considero affatto uno che ha collaborato con lui a scrivere questa commedia, perché era una pura e semplice discussione, dico questo solo per raccontare la maniera con cui queste sedute si svolgevano. Lavoravamo così fino a verso mezzogiorno l'una, poi andavamo a mangiare nello stesso albergo un boccone, alle due e mezzo riunivamo gli attori per le prove di le “Sacrès Fantômes”, così si intitolava la commedia che era stata tradotta da Georges Leminier, e che andò in scena al Vieux colombier appunto all'inizio mi pare del '57 o la fine del '56. E la sera, dopo cena, io mi ritiravo in camera mia a scrivere, qualche sera con Eduardo andavamo in giro, andavamo a teatro. Fra i ricordi simpatici di quel periodo così c'è una serata in cui andammo a vedere Ingrid Bergman, che recitava, recitava in una commedia americana molto bella con un attore, Yves Robert, mi pare che fosse, sì. Eduardo la conosceva bene perché aveva fatto un film con lei, andò a trovarla e la invitò a cena con noi, e noi passammo una sera così a cena con Ingrid Bergman e con Eduardo, poi andammo in un locale notturno per continuare a chiacchierare. A me affascinava la Bergman, che parlava anche un po' di italiano in una maniera tutta sua strana, con quello splendido sorriso che aveva socchiudendo gli occhi, insomma me la ricordo come una delle persone più affascinanti di quella stagione lì, insomma. Poi Eduardo stette in tutto due settimane e mezzo mi pare, altre cose lo chiamavano a Roma e lui ripartì e io rimasi lì circa un mese e mezzo ancora andando avanti con le prove e lui tornò per la prova generale, mise a posto le luci, andammo in scena con grande successo. Anche lì, devo dire, oramai nelle tournée, lui era già stato a Parigi con la sua compagnia, quindi il nome era già noto e non fu difficile insomma così raccogliere grande pubblico intorno a questo spettacolo che andò avanti, mi pare, per due o tre stagioni.

Luciano Lucignani: 2:00:49:00 Facemmo una puntata a Bruxelles, davanti, dove recitammo davanti alla regina, che venne poi a stringerci le mani - io conservo ancora questa fotografia di Eduardo e me, vicini, con questo piccolo essere tutto vecchio, vecchio, vecchio elegantissimo, che ci porgeva la mano raggrinzita da baciare - al Teatro Royal du Parc. Recitammo anche lì con grande successo. Io tornai a Roma, la commedia era stata terminata da Eduardo, era pronta, la mettemmo in scena al Teatro dei Servi. Una serata straordinaria, inaugurazione del teatro e inaugurazione di questo spettacolo, prima rappresentazione questo spettacolo, due tre giorni dopo, il divieto di recitare, venuto dal ministero dello spettacolo su denuncia del… ecclesiastica. Il teatro dove noi recitavamo era un teatro di proprietà della chiesa dei Servi che è lì vicino, però l'accordo era stato fatto che le due cose non dovevano interferire, noi non dovevamo fare nulla che fosse considerato blasfemo dall'autorità ecclesiastica e l'autorità ecclesiastica non avrebbe dovuto interferire su quello che era la nostra attività. Loro considerarono blasfemo in Vincenzo De Pretore la rappresentazione del Paradiso fatta come la vede un povero napoletano, il quale povero napoletano la vede come in fondo la vediamo anche noi, voglio dire, perché noi pensiamo che Dio abbia una lunga barba bianca, che gli angeli abbiano le ali, sono imitazioni delle immagini umanistiche o rinascimentali che abbiamo visto tante volte. Qualcuno ha avuto quest'idea che il paradiso è fatto sopra a tante nuvole che fanno un cerchio, che si sostiene chissà per quale motivo, insomma c'è un'immagine. Da un povero ladruncolo napoletano tutto quello che si poteva immaginare era che fosse, ci fossero i poliziotti, i commissari, lui sta morendo è in agonia De Pretore, e in questa agonia, in questo vaneggiamento immagina il paradiso fatto a immagine e somiglianza della realtà che lui conosce. Però questo non piaceva ai sacerdoti della chiesa dei Servi e le recite furono sospese. Tre o quattro giorni di imbarazzo poi ci offrirono il valle, la recitammo ancora per qualche giorno ma oramai l'effetto era caduto e la cosa andò a finire male.

Luciano Lucignani: 2:00:51:28 De Pretore ebbe una grande carriera all'estero, girò quasi tutto il mondo, e poi di ritorno, qualche anno fa, Eduardo lo fece in televisione, lo girò per la televisione, e fu regolarmente trasmesso tutti deprecarono il divieto di quel tempo ma intanto il divieto di quel tempo aveva prodotto danni, la compagnia che si stava per formare non si era più formata, ognuno di noi personalmente senza essere una persona ricca aveva rimesso alcune centinaia di migliaia di lire, non credo che ci fossero cifre maggiori di allora e comunque un danno era stato fatto, una carriera anche quella dello stesso teatro dei servi era stata interrotta. Pazienza, come avviene anche in altri paesi noi fummo riabilitati, in un certo senso, a distanza, però la riabilitazione non ci servii a molto, ecco.

Luciano Lucignani: 2:00:52:21 Questo è la storia di quello che io ricordo, e che credo che possa interessare fino al 1962, anno nel quale sono passato a dirigere dei film, ne ho fatti quattro, poi la difficoltà di continuare il lavoro cinematografico, soprattutto di persuadere i produttori - fare il film è la cosa più semplice, ma si arriva a fare i film quando si è stanchissimi dopo tutti i colloqui fatti con i produttori -, dicevo, questa difficoltà mi scoraggiò e così passai di nuovo a fare il giornalista, a scrivere per la radio, per la televisione, per il cinema ancora, ma per altri registi, e poi finalmente ebbi un'offerta di quelle che non mi sentii di rifiutare perché era completamente nuova, cioè quella di entrare in una casa editrice. L'offerta mi fu fatta al ritorno dal mio primo viaggio in America, cioè nel '78, - sì alle fine del '77 andai in america e nei primi del ’78 - la casa editrice era la Curcio, la Armando Curcio Editore, e io da allora sono lì, come consulente editoriale e il mio lavoro consiste nel progettare delle opere, sottoporle alla redazione e alla direzione, fissare il budget economico che occorre per farle, per pubblicizzarle eccetera e poi, metterle in cantiere, accompagnarle per un certo periodo e quando sono nelle mani di redattori o redattrici che le sanno portare avanti, abbandonarle per progettarne altre.

Luciano Lucignani: 2:00:54:00 Fino ad adesso ne ho fatte una decina di queste cose, attualmente è in esecuzione una storia del cinema in otto volumi, credo abbastanza rigorosa, diretta da me e da Tommaso Chiaretti e scritta da un nugolo di collaboratori specialisti del cinema. Farò nel prossimo anno una storia della letteratura italiana, poi opere scientifiche, ma non credo di poter fare programmi troppo lunghi, perché come ho detto all'inizio di questa conversazione oggi è l’11 aprile 1987 e io, in qualche maniera, ho compiuto 65 anni e 3 mesi.