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Luciano Luisi: [00:36:32]
Il Murice
Anch’io questa che già deve difendersi,
mia vita, dall’unghia del tempo,
dove fra ombre che crescono, raro
un bagliore serpeggia, questa già stanca vita
che, mi dico - guardandola come se in fuga passasse
sopra uno schermo sbiadito - non può
essere questa la mia, già così lunga voltandomi.
Ora vorrei con umiltà nasconderla
al tuo sguardo impietoso che indaga, come fa
ad ogni allarme un murice chiudendosi
nel suo nicchio protetto dall’opercolo,
e come lui resistere all’affanno
dell’oceano che preme, al suo peso.
Ma tu scrolli le spalle e cancelli
le ombrose ubbie e mi sfiori con la mano
ridendo. E allora sia! M’inonda
la tua voglia di vivere,
né l’ironia più mi difende, sono
un arenile che s’arrende all’onda.
Luciano Luisi: [00:37:32] E, a proposito di conchiglie. Io andavo spesso a trovare Eugenio Montale quando andavo a Milano. E Montale soprattutto negli ultimi anni, probabilmente con poca memoria, ogni volta mi mostrava una bellissima conchiglia che aveva sui libri, sape… conoscendo la mia passione. Era una conchiglia, che si chiama la Tibia fusus, che ha una sorta di… di… di… di prolungamento del suo corpo che può raggiungere anche i 20 centimetri, una spina lunghissima, quindi una conchiglia di grande eleganza. Ecco, e a proposito del pensiero che Wright faceva - aveva - sulle… sulle conchiglie, invece mi stupiva e mi colpiva questa assoluta mancanza di ricerca in Montale di una qualsiasi finalità soprannaturale dell'uomo, si… lui diceva di essere assolutamente ateo. E io scrissi allora questa poesia, che per rispetto, non pubblicai fino alla sua morte.
La Tibia fusus
Il vecchio poeta la tiene posata sopra i libri
e me la mostra con compiacenza estetica,
la lunga Tibia fusus
armata da una spada - così dice celiando –
che è tesa per difenderla
dagli ignoti pericoli del mare.
Né quella forma perfetta
sa incrinare col dubbio
la sua certa mancanza di fede.
L'osserva elegantissima - dice - non altro,
ma cede di fronte a tanta inutile bellezza
solo a qualche domanda sul mistero degli abissi.
Non sa d’altri misteri o non li vede
neppure ora che l'ora è più tarda.
Né s’avvede - pago di ciò che sa –
di ciò che crede la verità,
la sola, la visibile,
di quanti pochi passi il nostro piede
avanza fra cortine che ci avvolgono, come i suoi
stanchi e brevi nel chiuso d’una stanza.